I Nuovi Baroni

Capitolo Quarto

Il giorno dopo, all’alba, Giaime Cossu era già in viaggio. Aveva scelto come accompagnatore un giovane prestante, svelto di coltello e abile cavallerizzo. Il giovane gli era debitore, per averlo tolto dai guai quando lo avevano incriminato per avere accoltellato un uomo che gli contendeva i favori di una popolana, proponendosi di essere un suo protettore, pur non avendo la forza necessaria per proteggerla veramente, almeno non nei confronti di Diego Murenu, più alto di una spanna di quel sedicente protettore, più forte e sicuramente dal carattere più volitivo e deciso.

Per fortuna il suo rivale non era morto e lui si era offerto di pagare le cure per farlo guarire. Diego Murenu dal giorno aveva rigato dritto, affiancando suo padre nell’attività di pescatore; attività che lasciava però volentieri, ogni volta che il suo salvatore, verso il quale provava una profonda gratitudine, scevra però da ogni piaggeria, ne aveva avuto bisogno.

 Tanto più che la retribuzione che gli garantivano quelle episodiche collaborazioni, non facevano certo rimpiangere i magri profitti della pesca in mare.

Lungo la strada, attraversando i campi, Giaime Cossu, seguito a cavallo dal suo fido accompagnatore Diego Murenu, osservò con attenzione i campi di grano, già in gran parte mietuti, e le vigne rigogliose ben curate, che mostravano già i primi tralci ancora acerbi. Si inebriò di quei colori e degli odori che la campagna emanava. I numerosi braccianti addetti ai lavori dei campi raramente sollevavano le schiene ricurve per osservare quei due forestieri. La fatica era più forte della curiosità. Giaime notò tuttavia che erano i padroni, o quelli che dirigevano le attività agricole a rivolgergli un cenno di saluto, dopo averli osservati con quello sguardo di diffidenza e curiosità tipico dei contadini alla vista dei forestieri. In questi casi anche lui si limitava a un fugace cenno di saluto, educato ma non troppo espansivo.

Poco prima di mezzogiorno giunsero a Villa di Sor, alla casa di Don Gavino Palacio, adiacente alla Rettoria di cui il religioso era a capo. Furono introdotti alla sua presenza dal suo campanaro e sagrestano, nonché portinaio e factotum Luisu Caboi.

Don Gavino Palacio era un uomo dal fisico prestante e dal carattere forte. Il capostipite della sua famiglia, di solida origine iberica, era stato un hidalgo di nome Rodrigo, sbarcato in Sardegna al seguito di uno dei tanti viceré spediti da Madrid al tempo della dominazione spagnola, per domare, sottomettere e spremere quel regno arcano, che come altri possedimenti, adornavano la corona del suo sovrano. 

Anche quel regno, più vicino, più piccolo e più povero degli altri   territori lontani, che rappresentavano il mitico “El Dorado” delle Americhe, per meritare un tale elevato onore, aveva il dovere di contribuire fattivamente al sostentamento della corona spagnola, per la gloria superiore dello stesso re, della sua nobiltà, piccola o grande che essa potesse essere, e della religione cattolica.

Don Rodrigo Palacio, cha apparteneva alla più piccola delle classi nobiliari della corona spagnola, all’apice della sua personale carriera, quando ormai, non soltanto la gloria del siglo de oro, ma anche quella più modesta dell’ultimo dei Borbone stava transitando nel crepuscolo della storia, era assurto al grado di Capitano Regio.

 Sarebbe però morto in miseria, più o meno come aveva vissuto sino ad allora, se non avesse avuto la fortuna di sposare la ricca e giovane vedova di un facoltoso notaio di Monastir, un certo Clemente Sanna ch’era riuscito, grazie alla sua prestigiosa professione, ad accrescere in maniera considerevole il patrimonio dei suoi avi.

Con l’aiuto di un bravo avvocato e grazie a una specifica disposizione testamentaria, la bella vedova era riuscita a salvare una fetta consistente del patrimonio del defunto marito dagli assalti famelici dei cugini e dei nipoti.

 E dove non erano riusciti utili i codicilli e le pandette di quell’aggrovigliato e complesso ordinamento giuridico che costituiva l’ossatura dei rapporti economici della società sarda di allora, ci avevano pensato il carisma militare e gli appoggi altolocati che l’hidalgo spagnolo era riuscito a trovarle, in rafforzamento delle sue ragioni ereditarie.

 Dalla coppia erano nati due figli maschi: Vincente e Ferdinando e una femmina di nome Isabela.

  I due figli maschi, in forza delle norme successorie dotali che prevedevano, per mantenere integri i grossi patrimoni terrieri, di liquidare le donne con una dote in danaro contante, onde lasciare così le terre in eredità ai soli figli maschi, avevano liquidato la sorella con una congrua dote.

 Ferdinando, poi, dotato di una maggiore predisposizione agli studi, aveva scelto una carriera alternativa alla gestione delle proprietà familiari ed era stato anche lui liquidato con una sostanziosa somma in danaro sonante.

 Ma quando Vincente era morto senza figli, il patrimonio originario della moglie del capostipite Rodrigo era tornato indietro a don Ferdinando Palacio e, successivamente, ai suoi due figli Carlos e Victorio.

Dei numerosi figli del primo, erano sopravvissuti soltanto Consuelo e Gavino, nati a distanza di quasi vent’anni, che vivevano insieme nel Rettorato Maggiore del marchesato di Villa Sor, mentre del secondo, l’unica figlia era Mercedes, la moglie del Reggente della Cancelleria Reale Giovanni Maria Meloni.

Novecento starelli di terreno fertile, per metà seminativo e per l’altra metà coltivato a ulivi, vigne e frutteto, al confine con la villa di Monastir, erano la parte toccata ai tre cugini di quell’antica ricchezza, entrata nel loro possesso non come proprietà infeudata, ma come attribuzione dominicale che però godeva del privilegio dell’esenzione ecclesiastica.

E questa era la ragione per cui donna Mercedes l’aveva lasciata nel possesso del cugino religioso, accontentandosi di modeste rendite, che certi anni arrivavano in ritardo o arrivavano dimezzate, con il tacito e inespresso accordo che un giorno la proprietà si sarebbe ricomposta in capo a lei per intero.

Tanto più che Giovanni Maria  Meloni, grande esperto di questioni giuridiche, studiando le carte dei possedimenti di sua moglie, aveva intravisto una serie di  clausole oscure che gli avevano suggerito l’opportunità di lasciare la proprietà ancora indivisa, in attesa che l’ordinamento giuridico si proiettasse in una dimensione più liberale, suscettibile di recidere una volta per tutti i legami con quel coacervo aggrovigliato di norme e consuetudini che soffocavano, insieme all’economia della Sardegna, anche i singoli individui che avevano la sventura di trovarsi di fronte a un consesso di giustizia.

A dispetto delle sue sicure origini iberiche, don Gavino Palacio tuttavia, non sembrava parteggiare affatto per i feudatari, connazionali del suo capostipite Rodrigo. Al contrario, le sue simpatie andavano all’altro dei due partiti che all’epoca si fronteggiavano fieramente, quello dei lealisti savoiardi.

Non che don Gavino si sentisse particolarmente trasportato a simpatizzare per il partito dei piemontesi, contro quello degli spagnoli.

 Egli aveva opportunisticamente valutato che la condizione di miseria in cui versavano i vassalli degli antichi feudatari spagnoli, indirettamente si ritorceva contro di lui.

Se  infatti  quegli sventurati si fossero affrancati dagli antichi  balzelli feudali,  la ricchezza delle terre infeudate, anziché prendere il volo verso Vienna e verso Madrid, ad accrescere le casse degli avidi baroni di quegli antichi  imperi ormai al tramonto, sarebbe rimasta in loco e di quella nuova prosperità lui sarebbe stato il primo a usufruirne, grazie alle offerte per i suoi inflessibili tariffari: un tot di lire sarde o piemontesi per il Battesimo, almeno qualche scudo per il matrimonio e molti di più per l’ultimo viaggio, quello più costoso e bisognevole di preci accompagnatorie. 

 Senza contare che tra le terre infeudate ve n’erano non poche che confinavano con le sue proprietà; e una volta riscattate, lui avrebbe potuto ampliare i suoi confini, senza suscitare le proteste di alcuno.

Nell’applicazione del suo tariffario il Rettore Palacio era inflessibile e i suoi fulmini cadevano implacabili su quelli che non provvedevano a sistemare in anticipo e in maniera soddisfacente l’incombenza.

In tali casi, durante l’omelia della cerimonia   matrimoniale poteva capitare ai malcapitati sposi, ch’egli citasse la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, ai versetti 25-31 del Capitolo Settimo, rimarcando con ferace precisione, il riferimento alle tribolazioni della vita matrimoniale e la volatilità dei suoi piaceri.

E se fossero appartenuti alla classe prima, quella dei Printzipales, o anche alla seconda, quella dei Mezzani (per quelli della terza classe non c’era alcun pericolo, perché don Gavino Palacio le cerimonie le passava al suo vicario, adducendo improrogabili e insormontabili impegni), allora aveva pronte le ammonizioni contenute nei versetti da 23 a 26  del Capitolo Sesto del Vangelo di  San Luca, per avvertirli sulla perniciosità della loro ricchezza, che si poteva scansare, insieme al fuoco delle pene eterne, con congrue donazioni agli uomini di chiesa come lui.

Insomma don Gavino Palacio non brillava certo per le sue doti spirituali, anche se all’età di cinquantacinque anni, sembrava essersi avviato a una savia vecchiaia e a una gestione, se non altro, ordinata della sua Rettoria. E questo grazie anche a sua sorella Consuelo, la vera, autentica anima spirituale della famiglia.

Ma l’occhio materiale di don Gavino continuava a pungere. Lo stesso occhio che si puntò con sospetto sopra Giaime Cossu e sopra il suo accompagnatore, quella mattina.

«Ah, dunque è mia cugina Mercedes che vi manda? E per che cosa di specifico?», disse dopo aver letto la lettera di presentazione che Giaime gli aveva consegnato, dando così a intendere di non accontentarsi di quella spiegazione così vaga e generica. Il suo animo sospettoso era esacerbato dal pericolo che quel messo potesse ostacolare il suo godimento indisturbato delle comuni proprietà terriere.

«Donna Mercedes mi ha raccomandato di porgervi anche questi, insieme alle mie riverenze e ai suoi saluti», disse per tutta risposta il messo cagliaritano consegnando al prelato il più pingue dei due sacchetti, quello contenente trenta scudi d’argento.

Il tintinnio del contenuto del sacchetto di monete fece cambiare atteggiamento al prelato, facendolo sorvolare sul fatto che si sarebbe aspettato almeno un congruo preavviso per quell’ospite inatteso e perfino indesiderato. Se sua cugina gli mandava dei danari voleva dire che non se ne aspettava da lui. A maggior ragione, poiché si sentiva in colpa per non averle mandato alcuna rendita nel corso dell’anno già avanzato.

«Questi scudi d’argento ci fanno davvero comodo», disse intascando la bella somma. Tanto più che quest’anno i nostri terreni osservano l’anno paberile, come nostra cugina sa per certo».  Don Gavino tacque la circostanza che era soltanto la metà della proprietà comune ad essere soggetto all’anno di quiescenza che,  per antica consuetudine,  si alternava ai due anni in cui venivano seminati i cereali e che l’altra metà aveva dato un’abbondanza di frutta mai vista prima; e comunque anche quella metà, nell’anno di riposo, veniva data in affitto ai pastori che non potevano mancare di compensare il proprietario riconosciuto con ricche prebende, soprattutto in materia prima; il che significava latte, formaggi e carne di pecora e di mucca assicurata per tutto l’anno, giorni feriali e feste comandate incluse.

«Ma prego, entrate cavaliere. Adesso farò sistemare il vostro scudiero e i vostri animali negli alloggi adiacenti alla stalla mentre vi introduco alla padrona di casa, mia sorella Consuelo, che sarà ben lieta di conoscere l’inviato della nostra amata cugina Mercedes».

Giaime Cossu ebbe un’accoglienza calorosa da parte della sorella del Rettore. Tanto le sembrò gentile e ospitale, quanto il fratello gli era parso arcigno, sospettoso e scorbutico. Donna Consuelo era molto avanti negli anni, ma nonostante contasse già settantacinque anni, appariva ancora vigorosa sia nei movimenti che nella favella; serbava nei lineamenti del viso, nonostante i segni dell’età avanzata, un’antica bellezza, di cui si poteva scorgere ancora qualche riflesso, nel bagliore dei suoi occhi celesti. Al contrario di suo fratello, e a dispetto della sua vecchiaia, sembrava contare su una dentatura quasi perfetta, mentre don Gavino, come aveva denotato il suo pestifero alito, che Giaime suo malgrado aveva dovuto sorbirsi mentre quello, all’inizio, lo investiva dei suoi istintivi e alitosi sospetti, doveva fruire già di qualche protesi, come si notava anche dalle sue difficoltà nel parlare.

«Venite che vi mostro la vostra stanza. Vi manderò poi su la vostra attrezzatura con dell’acqua per rinfrescarvi e vi aspettiamo dabbasso per il pranzo. Così potremo parlare di nostra cugina; e anche di voi se vi farà piacere».

«Grazie donna Consuelo, ma di me non c’è un granché dire», si schermì cortesemente il sedicente inviato di donna Mercedes Palacio, che non voleva però sembrare scontroso. «Scusate ma i miei strumenti sono troppo preziosi e delicati e vanno maneggiati con cura sapiente; sapete, sono strumenti di precisione» aggiunse caricandosi il cannocchiale e il celerimetro, con il resto della copiosa documentazione che si era portato appresso da Cagliari.

«Non vi preoccupate, non ci mancheranno certo gli argomenti di discussione. Avrete saputo sicuramente dell’uccisione del Sostituto Podatario del marchese Da Silva?»

Il messo del Reggente cercò di nascondere il suo vivo interesse. Ma ci pensò lo stesso don Gavino a distogliere l’attenzione della sorella. «Non poteva ammazzare qualcun altro quel benedetto Antoni Pinna? Avevo già concordato con la buonanima di don Josep Mendoza un compenso di sette scudi d’argento per la cerimonia religiosa di infeudamento! E i miei scudi d’argento hanno preso il volo con quel disgraziato!»

«Don Gavino!», lo rimproverò bonariamente donna Consuelo. Era l’unica persona al mondo capace di fare un rimprovero a quel caratteraccio terribile che neanche i diversi vescovi che si erano avvicendati in diocesi erano riusciti a dominare.

«Certo, certo, avete ragione! Réquiem aetérnam dona eis, Dómine», disse il canonico con un gesto appropriato della mano destra.

«Et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace», disse donna Consuelo segnandosi devotamente.

«Amen» concluse Giaime imboccando le scale appresso alla sua ospite.

«Io vado a controllare che tutte le entrate siano chiuse per bene. Di questi tempi non si sa mai».

«Ci vediamo a pranzo» gli disse la sorella con un sorriso per farsi perdonare il rimprovero di prima.

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