I Nuovi Baroni – 3

Capitolo Terzo

«Eccovi trenta scudi per il canonico maggiore e altri venti per voi. Con i primi predisporrete l’animo di quel vecchio taccagno in sottana, alla migliore ospitalità nei confronti vostri, mentre coi secondi gestirete il vostro viaggio e il vostro soggiorno nella Villa, procurando di aprire la borsa per pagare le informazioni più corrette da raccogliere, vagliare e trasmettere direttamente a me. Avete delle domande? Pensate di avere bene inteso i vostri compiti?»

Giaime Cossu intascò le due borse, riponendole al sicuro in una tasca interna della sua giacca.

«Sono un poco in ansia per questi preziosi strumenti che mi state assegnando. Non sono neppure tanto sicuro di saperli utilizzare».

«Non fate il modesto. Non avrete fatto misurazioni ai corsi della Scuola Superiore di Statistica?»

«Sì, forse, ma son passati troppi anni per ricordare. E comunque si sarà trattato più che altro di misurazioni finalizzate ad estrapolare delle grandezze come esercizio teorico».

«E che problema c’è? Adesso passerete alla pratica sul campo».

«Ma è la proiezione cartografica a preoccuparmi. Come riporterò le mie misurazioni angolari sulla carta?»

«È più semplice di quanto non sembri. Intanto portatevi appresso queste vecchie planimetrie dell’Archivio Reale: sono state realizzate dai censori agrari e abbastanza fedelmente riportano quei terreni. Poi chiedete in giro i nomi dei vari appezzamenti e riportateli sulla carta insieme a delle misurazioni e ai rilievi angolari. Se qualcuno controllasse per errore o per malizia le vostre carte, troverebbe che avete comunque tracciato delle mappe. D’altronde chi sarebbe in grado di smentirvi nell’uso degli strumenti che vi state portando appresso? Volete scommettere che in Villa Sor non c’è una sola persona capace di dare un nome a questi strumenti?»

«Quindi, riepilogando, cosa mi state consegnando da portarmi appresso?», chiese Giaime Cossu, convinto dalle razionali argomentazioni del suo superiore.

«Un compasso di proporzione tascabile, un cannocchiale Semitecolo e un celerimetro di Porro completo di custodia in legno».

«Bene», disse l’inviato prendendo in consegna la strumentazione scientifica che gli avrebbe garantito una copertura per le sue indagini segrete.

«Prendete anche questi altri documenti, una fedele riproduzione della Carta Manoscritta di Domenico Colombino e la “Carte Generale du theatre de la guerre en Italie” redatta dal topografo di Napoleone, con la rete stradale sarda. È una piccola biblioteca itinerante con la quale potrete dimostrare che state facendo sul serio il vostro lavoro».

«Quanto tempo dovrò stare in Villa?», disse l’uomo ricevendo il materiale cartaceo.

«Dipende. Ufficialmente il vostro lavoro non è certo semplice. Vi manderò io disposizioni, se necessario, in risposta a quanto mi farete sapere della situazione. Vi raccomando ancora discrezione. E non esponetevi ad alcun pericolo. Anzi, se voi vedeste dei pericoli per la vostra incolumità, tornate subito in città ad avvertirmi. Le ultime notizie giunte dalla Villa non sono state certo tranquillizzanti».

«Ho capito».

«Un’ultima cosa. Questa è una lettera di mia moglie per il Rettore suo cugino. Ditegli che è riservata. Tanto sono sicuro che, anche se non sarà lui il primo a spiattellarne il contenuto, qualcuno la troverà in giro per la casa e la leggerà a beneficio degli altri che vorranno sapere. Rafforzate la vostra copertura di sovrintendente e curatore dei beni della sua amata cugina. E non temete alcunché dal canonico Palacio: quando capirà che non siete lì per chiedergli soldi, anzi gliene portate in aggiunta a quelli che già dovrebbe versare alla cugina, vi accoglierà con buon garbo per tutto il tempo necessario».

«D’accordo», disse Giaime Cossu con un sottile sorriso d’intesa intascando anche la lettera che il suo superiore gli porgeva.

«Quando pensate di partire?»

«Domani all’alba».

«Bene. Appena avrete delle novità di rilievo, redigete il primo dispaccio e mandatemelo con il vostro servitore. Fatelo viaggiare presto e per i sentieri più sicuri.»

«Certamente. Volete che vi scriva in linguaggio criptato?»

«No, meglio di no. Indirizzate la lettera alla Reale Cancelleria ma con il nominativo della vostra mandante di copertura».

«Donna Mercedes Palacio?»

«Sì, certo. Scrivete rivolgendovi a lei e utilizzate magari delle metafore oppure delle perifrasi. Giusto in caso intercettino le missive. Anche se l’utilizzo del corriere personale dovrebbe rendere più difficile l’intercettazione».

«D’accordo».

«Come viaggerete?»

«A cavallo. Meglio evitare la carrozza. Attira l’attenzione dei briganti di strada e poi si noterebbe troppo all’arrivo; e io voglio arrivare quanto più inosservato posso».

«Bravo. Ben detto», approvò il Cancelliere Reale. I soldi per addestrare quell’uomo erano stati spesi bene. Dai suoi istruttori torinesi aveva imparato bene l’arte di muoversi senza troppo scoprirsi, di osservare senza essere osservato, di cogliere le cose più importanti per riferirle in sintesi a chi di dovere.

«Allora buon viaggio a voi, maggiore. E tenetemi informato più che potete» disse il Reggente della Reale Cancelleria stringendo la mano dell’uomo. L’inviato gli sorrise senza dire niente altro.

Nonostante fosse un suo superiore, Giovanni Maria Meloni provava un grande rispetto per quell’uomo. Non tanto per quei pochi anni che aveva in più di lui, che non potevano certo mettere in soggezione l’uomo più potente del Regno di Sardegna, dopo il viceré, ma piuttosto per i suoi trascorsi personali e per la tradizione familiare che accompagnavano il suo stato di servizio. 

Giaime Cossu era un uomo di statura media, dal fisico asciutto, che dimostrava meno dei suoi quarantaquattro anni. Il titolo di cavaliere lo aveva ereditato dal padre Giacinto, morto da eroe durante la cruenta battaglia con la quale i volontari Sardi, accorsi alla chiamata alle armi del viceré Balbiano, respinsero i quattromila soldati Francesi sbarcati nell’isola nel gennaio 1794.

Sulle ali di questa eclatante vittoria sui Francesi, i politici di Torino, si decisero finalmente ad accogliere una delle più annose richieste dei Sardi, sostenute invero da più di un predecessore di Balbiano: quella di attribuire ai nativi isolani tutti gli impieghi pubblici, escluso quello del sostituto del Re. Si decise così di cominciare ad assumere nei ranghi della pubblica amministrazione quei Sardi che si fossero distinti nella battaglia di Quartu Sant’Elena contro i Francesi, attribuendogli le mansioni più confacenti ai loro titoli di studio e alle esperienze professionali pregresse.

Nella lista che Balbiano aveva consegnato al suo successore, il viceré Vivalda, vi era, tra i tanti nominativi, quello della vedova di Giacinto Cossu, all’epoca dei fatti già incinta del figlio Giaime.

Sua Altezza Reale Carlo Felice,  che rilevò le funzioni delegate a Cagliari proprio dal Vivalda, osservò curiosamente che le donne non potevano ricoprire impieghi pubblici nell’amministrazione sabauda, per le note carenze e per lo stato di inferiorità intellettiva, che allora ingiustamente si ritenevano connaturate al sesso femminile, deputato esclusivamente al ruolo di moglie e di madre.

 Il suo consigliere e amico Don Giacomo Pes, futuro marchese di Villamarina, saputo che la donna aveva partorito un figlio del cavaliere alla memoria militare Giacinto, suggerì che venisse assunto il figlio al posto del padre.

A Carlo Felice l’idea piacque molto.  Intanto perché il figlio dell’eroe aveva soltanto cinque anni e quindi si procrastinava ancora l’adempimento di quella promessa, che poi era divenuta, nel frattempo, anche un obbligo di legge.

Occorre poi aggiungere che il futuro re Carlo Felice andava sempre più entusiasmandosi di quel popolo laborioso, coraggioso e tenace, anche se chiuso nella sua atavica arretratezza e diffidente per natura.

Quando nel 1806, il re Vittorio Emanuele I, subentrato a suo fratello, sospinto dagli ostili venti di guerra napoleonici, che soffiavano nei suoi territori di terraferma, giunse a Cagliari,  Giaime Cossu aveva compiuto dieci anni e si era distinto dai Padri Scolopi, alle cui sapienti cure pedagogiche  il Villamarina lo aveva indirizzato a spese del demanio, come uno degli scolari più diligenti, intuitivi  e capaci.

Nel 1815, finalmente, insieme alla restaurazione del vecchio ordine europeo, si aprirono per i Sardi le porte della pubblica amministrazione piemontese.

 Il cavaliere Pes di Villamarina, prima che il suo sovrano partisse per Torino, lasciandolo a Cagliari a governare in sua vece, ottenne dal sovrano il permesso di costituire anche all’interno della segreteria di stato viceregia, sotto il personale controllo del titolare della massima carica sarda, una pattuglia segreta con il nome di sottocommissione per i lavori di statistica, sul modello di quella che si era già costituita a Torino presso il Ministero degli Esteri.

 Soltanto pochi decenni dopo, quella istituzione, che praticamente era a tutti gli effetti un servizio di spionaggio e controspionaggio, avrebbe avuto come capo incontrastato il conte di Camillo Benso di Cavour e come operatrici di rilievo perfino delle donne, preferite dal fautore dell’unità italiana, perché capaci, più dei colleghi maschi, di infilarsi nelle alcove degli eminenti personaggi ai quali strappare segreti e promesse di appoggi militari e politici in tutti i campi. Insomma un servizio di intelligence in piena regola.

Giaime Cossu era stato il primo sardo ad essere inviato alla scuola di addestramento che istruiva le future spie del Regno di Sardegna, da sistemare poi in apposite funzioni di copertura nella pubblica amministrazione.

Dopo il severo addestramento triennale il cavaliere Giaime Cossu venne proprio insignito del grado di tenente e pubblico ufficiale da don Giacomo Pes di Villamarina in persona, nel frattempo rientrato a Torino per farsi strada in   una brillante carriera ai massimi livelli governativi.

A sua richiesta, il giovane sardo fu destinato alla segretaria di stato viceregia e, non potendo ricoprire funzioni diplomatiche, gli venne assegnata, come paravento, la funzione di archivista, pur mantenendo nel suo dossier personale, il grado ufficiale di tenente.

Prima di ripartire da Torino per ricongiungersi alla sua attempata madre, di cui costituiva l’unico sostegno economico e psicologico, Giaime si sposò con Angela Petri Raimondi, una quasi coetanea, per metà nizzarda e per l’altra metà corsa, che aveva conosciuto in occasione di una delle feste che si organizzavano negli ambienti del Ministero degli Esteri che lui frequentava a pieno titolo, e di cui si era innamorato, contraccambiato, nel prosieguo del suo soggiorno torinese.

E fu con lei che lasciò Torino per la Sardegna, nell’anno di grazia del Signore 1818.

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