I Nuovi Baroni

Capitolo Quarto

Il giorno dopo, all’alba, Giaime Cossu era già in viaggio. Aveva scelto come accompagnatore un giovane prestante, svelto di coltello e abile cavallerizzo. Il giovane gli era debitore, per averlo tolto dai guai quando lo avevano incriminato per avere accoltellato un uomo che gli contendeva i favori di una popolana, proponendosi di essere un suo protettore, pur non avendo la forza necessaria per proteggerla veramente, almeno non nei confronti di Diego Murenu, più alto di una spanna di quel sedicente protettore, più forte e sicuramente dal carattere più volitivo e deciso.

Per fortuna il suo rivale non era morto e lui si era offerto di pagare le cure per farlo guarire. Diego Murenu dal giorno aveva rigato dritto, affiancando suo padre nell’attività di pescatore; attività che lasciava però volentieri, ogni volta che il suo salvatore, verso il quale provava una profonda gratitudine, scevra però da ogni piaggeria, ne aveva avuto bisogno.

 Tanto più che la retribuzione che gli garantivano quelle episodiche collaborazioni, non facevano certo rimpiangere i magri profitti della pesca in mare.

Lungo la strada, attraversando i campi, Giaime Cossu, seguito a cavallo dal suo fido accompagnatore Diego Murenu, osservò con attenzione i campi di grano, già in gran parte mietuti, e le vigne rigogliose ben curate, che mostravano già i primi tralci ancora acerbi. Si inebriò di quei colori e degli odori che la campagna emanava. I numerosi braccianti addetti ai lavori dei campi raramente sollevavano le schiene ricurve per osservare quei due forestieri. La fatica era più forte della curiosità. Giaime notò tuttavia che erano i padroni, o quelli che dirigevano le attività agricole a rivolgergli un cenno di saluto, dopo averli osservati con quello sguardo di diffidenza e curiosità tipico dei contadini alla vista dei forestieri. In questi casi anche lui si limitava a un fugace cenno di saluto, educato ma non troppo espansivo.

Poco prima di mezzogiorno giunsero a Villa di Sor, alla casa di Don Gavino Palacio, adiacente alla Rettoria di cui il religioso era a capo. Furono introdotti alla sua presenza dal suo campanaro e sagrestano, nonché portinaio e factotum Luisu Caboi.

Don Gavino Palacio era un uomo dal fisico prestante e dal carattere forte. Il capostipite della sua famiglia, di solida origine iberica, era stato un hidalgo di nome Rodrigo, sbarcato in Sardegna al seguito di uno dei tanti viceré spediti da Madrid al tempo della dominazione spagnola, per domare, sottomettere e spremere quel regno arcano, che come altri possedimenti, adornavano la corona del suo sovrano. 

Anche quel regno, più vicino, più piccolo e più povero degli altri   territori lontani, che rappresentavano il mitico “El Dorado” delle Americhe, per meritare un tale elevato onore, aveva il dovere di contribuire fattivamente al sostentamento della corona spagnola, per la gloria superiore dello stesso re, della sua nobiltà, piccola o grande che essa potesse essere, e della religione cattolica.

Don Rodrigo Palacio, cha apparteneva alla più piccola delle classi nobiliari della corona spagnola, all’apice della sua personale carriera, quando ormai, non soltanto la gloria del siglo de oro, ma anche quella più modesta dell’ultimo dei Borbone stava transitando nel crepuscolo della storia, era assurto al grado di Capitano Regio.

 Sarebbe però morto in miseria, più o meno come aveva vissuto sino ad allora, se non avesse avuto la fortuna di sposare la ricca e giovane vedova di un facoltoso notaio di Monastir, un certo Clemente Sanna ch’era riuscito, grazie alla sua prestigiosa professione, ad accrescere in maniera considerevole il patrimonio dei suoi avi.

Con l’aiuto di un bravo avvocato e grazie a una specifica disposizione testamentaria, la bella vedova era riuscita a salvare una fetta consistente del patrimonio del defunto marito dagli assalti famelici dei cugini e dei nipoti.

 E dove non erano riusciti utili i codicilli e le pandette di quell’aggrovigliato e complesso ordinamento giuridico che costituiva l’ossatura dei rapporti economici della società sarda di allora, ci avevano pensato il carisma militare e gli appoggi altolocati che l’hidalgo spagnolo era riuscito a trovarle, in rafforzamento delle sue ragioni ereditarie.

 Dalla coppia erano nati due figli maschi: Vincente e Ferdinando e una femmina di nome Isabela.

  I due figli maschi, in forza delle norme successorie dotali che prevedevano, per mantenere integri i grossi patrimoni terrieri, di liquidare le donne con una dote in danaro contante, onde lasciare così le terre in eredità ai soli figli maschi, avevano liquidato la sorella con una congrua dote.

 Ferdinando, poi, dotato di una maggiore predisposizione agli studi, aveva scelto una carriera alternativa alla gestione delle proprietà familiari ed era stato anche lui liquidato con una sostanziosa somma in danaro sonante.

 Ma quando Vincente era morto senza figli, il patrimonio originario della moglie del capostipite Rodrigo era tornato indietro a don Ferdinando Palacio e, successivamente, ai suoi due figli Carlos e Victorio.

Dei numerosi figli del primo, erano sopravvissuti soltanto Consuelo e Gavino, nati a distanza di quasi vent’anni, che vivevano insieme nel Rettorato Maggiore del marchesato di Villa Sor, mentre del secondo, l’unica figlia era Mercedes, la moglie del Reggente della Cancelleria Reale Giovanni Maria Meloni.

Novecento starelli di terreno fertile, per metà seminativo e per l’altra metà coltivato a ulivi, vigne e frutteto, al confine con la villa di Monastir, erano la parte toccata ai tre cugini di quell’antica ricchezza, entrata nel loro possesso non come proprietà infeudata, ma come attribuzione dominicale che però godeva del privilegio dell’esenzione ecclesiastica.

E questa era la ragione per cui donna Mercedes l’aveva lasciata nel possesso del cugino religioso, accontentandosi di modeste rendite, che certi anni arrivavano in ritardo o arrivavano dimezzate, con il tacito e inespresso accordo che un giorno la proprietà si sarebbe ricomposta in capo a lei per intero.

Tanto più che Giovanni Maria  Meloni, grande esperto di questioni giuridiche, studiando le carte dei possedimenti di sua moglie, aveva intravisto una serie di  clausole oscure che gli avevano suggerito l’opportunità di lasciare la proprietà ancora indivisa, in attesa che l’ordinamento giuridico si proiettasse in una dimensione più liberale, suscettibile di recidere una volta per tutti i legami con quel coacervo aggrovigliato di norme e consuetudini che soffocavano, insieme all’economia della Sardegna, anche i singoli individui che avevano la sventura di trovarsi di fronte a un consesso di giustizia.

A dispetto delle sue sicure origini iberiche, don Gavino Palacio tuttavia, non sembrava parteggiare affatto per i feudatari, connazionali del suo capostipite Rodrigo. Al contrario, le sue simpatie andavano all’altro dei due partiti che all’epoca si fronteggiavano fieramente, quello dei lealisti savoiardi.

Non che don Gavino si sentisse particolarmente trasportato a simpatizzare per il partito dei piemontesi, contro quello degli spagnoli.

 Egli aveva opportunisticamente valutato che la condizione di miseria in cui versavano i vassalli degli antichi feudatari spagnoli, indirettamente si ritorceva contro di lui.

Se  infatti  quegli sventurati si fossero affrancati dagli antichi  balzelli feudali,  la ricchezza delle terre infeudate, anziché prendere il volo verso Vienna e verso Madrid, ad accrescere le casse degli avidi baroni di quegli antichi  imperi ormai al tramonto, sarebbe rimasta in loco e di quella nuova prosperità lui sarebbe stato il primo a usufruirne, grazie alle offerte per i suoi inflessibili tariffari: un tot di lire sarde o piemontesi per il Battesimo, almeno qualche scudo per il matrimonio e molti di più per l’ultimo viaggio, quello più costoso e bisognevole di preci accompagnatorie. 

 Senza contare che tra le terre infeudate ve n’erano non poche che confinavano con le sue proprietà; e una volta riscattate, lui avrebbe potuto ampliare i suoi confini, senza suscitare le proteste di alcuno.

Nell’applicazione del suo tariffario il Rettore Palacio era inflessibile e i suoi fulmini cadevano implacabili su quelli che non provvedevano a sistemare in anticipo e in maniera soddisfacente l’incombenza.

In tali casi, durante l’omelia della cerimonia   matrimoniale poteva capitare ai malcapitati sposi, ch’egli citasse la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, ai versetti 25-31 del Capitolo Settimo, rimarcando con ferace precisione, il riferimento alle tribolazioni della vita matrimoniale e la volatilità dei suoi piaceri.

E se fossero appartenuti alla classe prima, quella dei Printzipales, o anche alla seconda, quella dei Mezzani (per quelli della terza classe non c’era alcun pericolo, perché don Gavino Palacio le cerimonie le passava al suo vicario, adducendo improrogabili e insormontabili impegni), allora aveva pronte le ammonizioni contenute nei versetti da 23 a 26  del Capitolo Sesto del Vangelo di  San Luca, per avvertirli sulla perniciosità della loro ricchezza, che si poteva scansare, insieme al fuoco delle pene eterne, con congrue donazioni agli uomini di chiesa come lui.

Insomma don Gavino Palacio non brillava certo per le sue doti spirituali, anche se all’età di cinquantacinque anni, sembrava essersi avviato a una savia vecchiaia e a una gestione, se non altro, ordinata della sua Rettoria. E questo grazie anche a sua sorella Consuelo, la vera, autentica anima spirituale della famiglia.

Ma l’occhio materiale di don Gavino continuava a pungere. Lo stesso occhio che si puntò con sospetto sopra Giaime Cossu e sopra il suo accompagnatore, quella mattina.

«Ah, dunque è mia cugina Mercedes che vi manda? E per che cosa di specifico?», disse dopo aver letto la lettera di presentazione che Giaime gli aveva consegnato, dando così a intendere di non accontentarsi di quella spiegazione così vaga e generica. Il suo animo sospettoso era esacerbato dal pericolo che quel messo potesse ostacolare il suo godimento indisturbato delle comuni proprietà terriere.

«Donna Mercedes mi ha raccomandato di porgervi anche questi, insieme alle mie riverenze e ai suoi saluti», disse per tutta risposta il messo cagliaritano consegnando al prelato il più pingue dei due sacchetti, quello contenente trenta scudi d’argento.

Il tintinnio del contenuto del sacchetto di monete fece cambiare atteggiamento al prelato, facendolo sorvolare sul fatto che si sarebbe aspettato almeno un congruo preavviso per quell’ospite inatteso e perfino indesiderato. Se sua cugina gli mandava dei danari voleva dire che non se ne aspettava da lui. A maggior ragione, poiché si sentiva in colpa per non averle mandato alcuna rendita nel corso dell’anno già avanzato.

«Questi scudi d’argento ci fanno davvero comodo», disse intascando la bella somma. Tanto più che quest’anno i nostri terreni osservano l’anno paberile, come nostra cugina sa per certo».  Don Gavino tacque la circostanza che era soltanto la metà della proprietà comune ad essere soggetto all’anno di quiescenza che,  per antica consuetudine,  si alternava ai due anni in cui venivano seminati i cereali e che l’altra metà aveva dato un’abbondanza di frutta mai vista prima; e comunque anche quella metà, nell’anno di riposo, veniva data in affitto ai pastori che non potevano mancare di compensare il proprietario riconosciuto con ricche prebende, soprattutto in materia prima; il che significava latte, formaggi e carne di pecora e di mucca assicurata per tutto l’anno, giorni feriali e feste comandate incluse.

«Ma prego, entrate cavaliere. Adesso farò sistemare il vostro scudiero e i vostri animali negli alloggi adiacenti alla stalla mentre vi introduco alla padrona di casa, mia sorella Consuelo, che sarà ben lieta di conoscere l’inviato della nostra amata cugina Mercedes».

Giaime Cossu ebbe un’accoglienza calorosa da parte della sorella del Rettore. Tanto le sembrò gentile e ospitale, quanto il fratello gli era parso arcigno, sospettoso e scorbutico. Donna Consuelo era molto avanti negli anni, ma nonostante contasse già settantacinque anni, appariva ancora vigorosa sia nei movimenti che nella favella; serbava nei lineamenti del viso, nonostante i segni dell’età avanzata, un’antica bellezza, di cui si poteva scorgere ancora qualche riflesso, nel bagliore dei suoi occhi celesti. Al contrario di suo fratello, e a dispetto della sua vecchiaia, sembrava contare su una dentatura quasi perfetta, mentre don Gavino, come aveva denotato il suo pestifero alito, che Giaime suo malgrado aveva dovuto sorbirsi mentre quello, all’inizio, lo investiva dei suoi istintivi e alitosi sospetti, doveva fruire già di qualche protesi, come si notava anche dalle sue difficoltà nel parlare.

«Venite che vi mostro la vostra stanza. Vi manderò poi su la vostra attrezzatura con dell’acqua per rinfrescarvi e vi aspettiamo dabbasso per il pranzo. Così potremo parlare di nostra cugina; e anche di voi se vi farà piacere».

«Grazie donna Consuelo, ma di me non c’è un granché dire», si schermì cortesemente il sedicente inviato di donna Mercedes Palacio, che non voleva però sembrare scontroso. «Scusate ma i miei strumenti sono troppo preziosi e delicati e vanno maneggiati con cura sapiente; sapete, sono strumenti di precisione» aggiunse caricandosi il cannocchiale e il celerimetro, con il resto della copiosa documentazione che si era portato appresso da Cagliari.

«Non vi preoccupate, non ci mancheranno certo gli argomenti di discussione. Avrete saputo sicuramente dell’uccisione del Sostituto Podatario del marchese Da Silva?»

Il messo del Reggente cercò di nascondere il suo vivo interesse. Ma ci pensò lo stesso don Gavino a distogliere l’attenzione della sorella. «Non poteva ammazzare qualcun altro quel benedetto Antoni Pinna? Avevo già concordato con la buonanima di don Josep Mendoza un compenso di sette scudi d’argento per la cerimonia religiosa di infeudamento! E i miei scudi d’argento hanno preso il volo con quel disgraziato!»

«Don Gavino!», lo rimproverò bonariamente donna Consuelo. Era l’unica persona al mondo capace di fare un rimprovero a quel caratteraccio terribile che neanche i diversi vescovi che si erano avvicendati in diocesi erano riusciti a dominare.

«Certo, certo, avete ragione! Réquiem aetérnam dona eis, Dómine», disse il canonico con un gesto appropriato della mano destra.

«Et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace», disse donna Consuelo segnandosi devotamente.

«Amen» concluse Giaime imboccando le scale appresso alla sua ospite.

«Io vado a controllare che tutte le entrate siano chiuse per bene. Di questi tempi non si sa mai».

«Ci vediamo a pranzo» gli disse la sorella con un sorriso per farsi perdonare il rimprovero di prima.

https://www.libreriauniversitaria.it/libri-autore_basile+ignazio+salvatore-salvatore_ignazio_basile.htm

I Nuovi Baroni – 3

Capitolo Terzo

«Eccovi trenta scudi per il canonico maggiore e altri venti per voi. Con i primi predisporrete l’animo di quel vecchio taccagno in sottana, alla migliore ospitalità nei confronti vostri, mentre coi secondi gestirete il vostro viaggio e il vostro soggiorno nella Villa, procurando di aprire la borsa per pagare le informazioni più corrette da raccogliere, vagliare e trasmettere direttamente a me. Avete delle domande? Pensate di avere bene inteso i vostri compiti?»

Giaime Cossu intascò le due borse, riponendole al sicuro in una tasca interna della sua giacca.

«Sono un poco in ansia per questi preziosi strumenti che mi state assegnando. Non sono neppure tanto sicuro di saperli utilizzare».

«Non fate il modesto. Non avrete fatto misurazioni ai corsi della Scuola Superiore di Statistica?»

«Sì, forse, ma son passati troppi anni per ricordare. E comunque si sarà trattato più che altro di misurazioni finalizzate ad estrapolare delle grandezze come esercizio teorico».

«E che problema c’è? Adesso passerete alla pratica sul campo».

«Ma è la proiezione cartografica a preoccuparmi. Come riporterò le mie misurazioni angolari sulla carta?»

«È più semplice di quanto non sembri. Intanto portatevi appresso queste vecchie planimetrie dell’Archivio Reale: sono state realizzate dai censori agrari e abbastanza fedelmente riportano quei terreni. Poi chiedete in giro i nomi dei vari appezzamenti e riportateli sulla carta insieme a delle misurazioni e ai rilievi angolari. Se qualcuno controllasse per errore o per malizia le vostre carte, troverebbe che avete comunque tracciato delle mappe. D’altronde chi sarebbe in grado di smentirvi nell’uso degli strumenti che vi state portando appresso? Volete scommettere che in Villa Sor non c’è una sola persona capace di dare un nome a questi strumenti?»

«Quindi, riepilogando, cosa mi state consegnando da portarmi appresso?», chiese Giaime Cossu, convinto dalle razionali argomentazioni del suo superiore.

«Un compasso di proporzione tascabile, un cannocchiale Semitecolo e un celerimetro di Porro completo di custodia in legno».

«Bene», disse l’inviato prendendo in consegna la strumentazione scientifica che gli avrebbe garantito una copertura per le sue indagini segrete.

«Prendete anche questi altri documenti, una fedele riproduzione della Carta Manoscritta di Domenico Colombino e la “Carte Generale du theatre de la guerre en Italie” redatta dal topografo di Napoleone, con la rete stradale sarda. È una piccola biblioteca itinerante con la quale potrete dimostrare che state facendo sul serio il vostro lavoro».

«Quanto tempo dovrò stare in Villa?», disse l’uomo ricevendo il materiale cartaceo.

«Dipende. Ufficialmente il vostro lavoro non è certo semplice. Vi manderò io disposizioni, se necessario, in risposta a quanto mi farete sapere della situazione. Vi raccomando ancora discrezione. E non esponetevi ad alcun pericolo. Anzi, se voi vedeste dei pericoli per la vostra incolumità, tornate subito in città ad avvertirmi. Le ultime notizie giunte dalla Villa non sono state certo tranquillizzanti».

«Ho capito».

«Un’ultima cosa. Questa è una lettera di mia moglie per il Rettore suo cugino. Ditegli che è riservata. Tanto sono sicuro che, anche se non sarà lui il primo a spiattellarne il contenuto, qualcuno la troverà in giro per la casa e la leggerà a beneficio degli altri che vorranno sapere. Rafforzate la vostra copertura di sovrintendente e curatore dei beni della sua amata cugina. E non temete alcunché dal canonico Palacio: quando capirà che non siete lì per chiedergli soldi, anzi gliene portate in aggiunta a quelli che già dovrebbe versare alla cugina, vi accoglierà con buon garbo per tutto il tempo necessario».

«D’accordo», disse Giaime Cossu con un sottile sorriso d’intesa intascando anche la lettera che il suo superiore gli porgeva.

«Quando pensate di partire?»

«Domani all’alba».

«Bene. Appena avrete delle novità di rilievo, redigete il primo dispaccio e mandatemelo con il vostro servitore. Fatelo viaggiare presto e per i sentieri più sicuri.»

«Certamente. Volete che vi scriva in linguaggio criptato?»

«No, meglio di no. Indirizzate la lettera alla Reale Cancelleria ma con il nominativo della vostra mandante di copertura».

«Donna Mercedes Palacio?»

«Sì, certo. Scrivete rivolgendovi a lei e utilizzate magari delle metafore oppure delle perifrasi. Giusto in caso intercettino le missive. Anche se l’utilizzo del corriere personale dovrebbe rendere più difficile l’intercettazione».

«D’accordo».

«Come viaggerete?»

«A cavallo. Meglio evitare la carrozza. Attira l’attenzione dei briganti di strada e poi si noterebbe troppo all’arrivo; e io voglio arrivare quanto più inosservato posso».

«Bravo. Ben detto», approvò il Cancelliere Reale. I soldi per addestrare quell’uomo erano stati spesi bene. Dai suoi istruttori torinesi aveva imparato bene l’arte di muoversi senza troppo scoprirsi, di osservare senza essere osservato, di cogliere le cose più importanti per riferirle in sintesi a chi di dovere.

«Allora buon viaggio a voi, maggiore. E tenetemi informato più che potete» disse il Reggente della Reale Cancelleria stringendo la mano dell’uomo. L’inviato gli sorrise senza dire niente altro.

Nonostante fosse un suo superiore, Giovanni Maria Meloni provava un grande rispetto per quell’uomo. Non tanto per quei pochi anni che aveva in più di lui, che non potevano certo mettere in soggezione l’uomo più potente del Regno di Sardegna, dopo il viceré, ma piuttosto per i suoi trascorsi personali e per la tradizione familiare che accompagnavano il suo stato di servizio. 

Giaime Cossu era un uomo di statura media, dal fisico asciutto, che dimostrava meno dei suoi quarantaquattro anni. Il titolo di cavaliere lo aveva ereditato dal padre Giacinto, morto da eroe durante la cruenta battaglia con la quale i volontari Sardi, accorsi alla chiamata alle armi del viceré Balbiano, respinsero i quattromila soldati Francesi sbarcati nell’isola nel gennaio 1794.

Sulle ali di questa eclatante vittoria sui Francesi, i politici di Torino, si decisero finalmente ad accogliere una delle più annose richieste dei Sardi, sostenute invero da più di un predecessore di Balbiano: quella di attribuire ai nativi isolani tutti gli impieghi pubblici, escluso quello del sostituto del Re. Si decise così di cominciare ad assumere nei ranghi della pubblica amministrazione quei Sardi che si fossero distinti nella battaglia di Quartu Sant’Elena contro i Francesi, attribuendogli le mansioni più confacenti ai loro titoli di studio e alle esperienze professionali pregresse.

Nella lista che Balbiano aveva consegnato al suo successore, il viceré Vivalda, vi era, tra i tanti nominativi, quello della vedova di Giacinto Cossu, all’epoca dei fatti già incinta del figlio Giaime.

Sua Altezza Reale Carlo Felice,  che rilevò le funzioni delegate a Cagliari proprio dal Vivalda, osservò curiosamente che le donne non potevano ricoprire impieghi pubblici nell’amministrazione sabauda, per le note carenze e per lo stato di inferiorità intellettiva, che allora ingiustamente si ritenevano connaturate al sesso femminile, deputato esclusivamente al ruolo di moglie e di madre.

 Il suo consigliere e amico Don Giacomo Pes, futuro marchese di Villamarina, saputo che la donna aveva partorito un figlio del cavaliere alla memoria militare Giacinto, suggerì che venisse assunto il figlio al posto del padre.

A Carlo Felice l’idea piacque molto.  Intanto perché il figlio dell’eroe aveva soltanto cinque anni e quindi si procrastinava ancora l’adempimento di quella promessa, che poi era divenuta, nel frattempo, anche un obbligo di legge.

Occorre poi aggiungere che il futuro re Carlo Felice andava sempre più entusiasmandosi di quel popolo laborioso, coraggioso e tenace, anche se chiuso nella sua atavica arretratezza e diffidente per natura.

Quando nel 1806, il re Vittorio Emanuele I, subentrato a suo fratello, sospinto dagli ostili venti di guerra napoleonici, che soffiavano nei suoi territori di terraferma, giunse a Cagliari,  Giaime Cossu aveva compiuto dieci anni e si era distinto dai Padri Scolopi, alle cui sapienti cure pedagogiche  il Villamarina lo aveva indirizzato a spese del demanio, come uno degli scolari più diligenti, intuitivi  e capaci.

Nel 1815, finalmente, insieme alla restaurazione del vecchio ordine europeo, si aprirono per i Sardi le porte della pubblica amministrazione piemontese.

 Il cavaliere Pes di Villamarina, prima che il suo sovrano partisse per Torino, lasciandolo a Cagliari a governare in sua vece, ottenne dal sovrano il permesso di costituire anche all’interno della segreteria di stato viceregia, sotto il personale controllo del titolare della massima carica sarda, una pattuglia segreta con il nome di sottocommissione per i lavori di statistica, sul modello di quella che si era già costituita a Torino presso il Ministero degli Esteri.

 Soltanto pochi decenni dopo, quella istituzione, che praticamente era a tutti gli effetti un servizio di spionaggio e controspionaggio, avrebbe avuto come capo incontrastato il conte di Camillo Benso di Cavour e come operatrici di rilievo perfino delle donne, preferite dal fautore dell’unità italiana, perché capaci, più dei colleghi maschi, di infilarsi nelle alcove degli eminenti personaggi ai quali strappare segreti e promesse di appoggi militari e politici in tutti i campi. Insomma un servizio di intelligence in piena regola.

Giaime Cossu era stato il primo sardo ad essere inviato alla scuola di addestramento che istruiva le future spie del Regno di Sardegna, da sistemare poi in apposite funzioni di copertura nella pubblica amministrazione.

Dopo il severo addestramento triennale il cavaliere Giaime Cossu venne proprio insignito del grado di tenente e pubblico ufficiale da don Giacomo Pes di Villamarina in persona, nel frattempo rientrato a Torino per farsi strada in   una brillante carriera ai massimi livelli governativi.

A sua richiesta, il giovane sardo fu destinato alla segretaria di stato viceregia e, non potendo ricoprire funzioni diplomatiche, gli venne assegnata, come paravento, la funzione di archivista, pur mantenendo nel suo dossier personale, il grado ufficiale di tenente.

Prima di ripartire da Torino per ricongiungersi alla sua attempata madre, di cui costituiva l’unico sostegno economico e psicologico, Giaime si sposò con Angela Petri Raimondi, una quasi coetanea, per metà nizzarda e per l’altra metà corsa, che aveva conosciuto in occasione di una delle feste che si organizzavano negli ambienti del Ministero degli Esteri che lui frequentava a pieno titolo, e di cui si era innamorato, contraccambiato, nel prosieguo del suo soggiorno torinese.

E fu con lei che lasciò Torino per la Sardegna, nell’anno di grazia del Signore 1818.

https://books.mondadoristore.it/buy-ebook-online/Ignazio-Salvatore-Basile/aut03719817

Memorie di scuola – Parte Prima

copertina memorie

5.

Quinta Ragioneria

Anno scolastico 1972-73

Se mi chiedessero oggi, in forza di  quale sfrontatezza o coraggio, in nome di quale diritto o in base a quale dovere,  in quell’ottobre del 1972, io mi misi a capo  degli studenti  della mia scuola e, insieme ad altri coraggiosi e sfrontati  del movimento studentesco  delle scuole superiori, ci mettemmo ad organizzare scioperi, occupazioni scolastiche e cortei per le strade cittadine, non saprei cosa rispondere.

O forse risponderei che io sentivo di vivere intensamente  uno di quei momenti, ciclicamente ricorrenti nella storia dell’umanità, in cui delle forze ancestrali e misteriose, sembrano muovere delle masse umane contro il potere costituito, illudendole di poter alfine spezzare quei vincoli invisibili che li costringono a seguire per una strada già segnata, senza alternativa e senz’altra scelta che quella, per essere finalmente protagonista della tua storia , della tua vita, del tuo destino. E allora, come un’aquila che spicchi per la prima volta il suo volo dalle sommità di una vetta, trattieni il respiro e poi ti lanci nell’aria, per vedere se le tue ali son capaci di volare, per vivere realmente o morire.

Oppure, più prosaicamente, risponderei che i vecchi leaders si erano diplomati e se non avessi preso io le redini in mano, tutto si sarebbe fermato. E io non volevo che quel sogno di riscatto e di libertà, in cui ormai credevo ciecamente,  finisse soltanto perché io non avevo trovato la forza o l’ardire di continuare quella lotta che sentivo giusta e sacrosanta.

Per capire meglio quegli anni e quei sentimenti occorre ricordare che mentre in Francia  il movimento del ‘68 si è accontentato della testa del generalissimo De Gaulle (ed è finito con la caduta della sua onorevole testa); e che  se in Inghilterra la rivoluzione è stata subito assorbita e metabolizzata nel tessuto di concessioni e miglioramenti economici e sociali che la classe politica astutamente e prontamente ha concesso ai giovani ed ai proletari in rivolta (qualcuno ha scritto che la nobiltà inglese soffre ancora la sindrome della ghigliottina del ‘98, per cui, pur di tenere la testa ben salda sul collo, e le rendite parassitarie intatte, è pronta a cedere ad ogni richiesta che la Casa dei Comuni, l’unica Assemblea elettiva e realmente  rappresentativa, avanzi in nome del popolo sovrano);  e che se infine le diverse dittature hanno soffocato nel sangue  i rigurgiti rivoluzionari degli spagnoli e  dei paesi dell’est europeo, in Italia la rivoluzione sessantottina è stata soltanto l’inizio di un lungo e sofferto cammino che i giovani della mia generazione  hanno percorso e vissuto attraverso diverse tappe; un decennio terribile, iniziato nella gioia e nei colori del ’68 (che, a sua volta, affondava le sue radici nella rivoluzione dei figli dei fiori di San Francisco e dintorni, della metà degli  anni sessanta, poi diramatosi in mille rivoli, a Berkeley, a Seattle, a Woodstock) e sviluppatasi negli anni successivi nelle lotte politiche e nei movimenti della sinistra extra-parlamentare, per sfociare infine nelle sanguinarie azioni dei gruppi armati, la cui deriva politica e storica, può farsi  risalire al rapimento e alla barbara uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1978), la vittima innocente, l’agnello sacrificale, il capro espiatorio di una classe politica cinica e corrotta che ha segnato un’epoca.

Insomma l’Italia, forse anche a causa della sua instabilità politica, di quel suo essere una terra di confine ideologico, dove ancora si fronteggiavano due partiti di opposte ed inconciliabili vedute politiche (la DC ed il PCI) che facevano capo ai due blocchi allora predominanti nel mondo (la Nato ed il Patto di Varsavia), fu teatro di uno scontro interno in cui alle schegge impazzite di una sinistra ormai decisa a rompere  definitivamente  il cordone ombelicale che la legava a Mosca, per entrare a far parte delle forze di governo, risposero le manovre occulte di apparati dello stato, collusi e manovrati dai burattinai americani, per niente convinti della buona fede dei comunisti, anzi diffidenti che   la loro manovra fosse un cavallo di Troia i cui fili erano mossi dai sovietici per espugnare Roma e successivamente minare alle basi e dall’interno la stessa Alleanza Atlantica.

Solo così si spiega il triste epilogo del tentativo di Aldo Moro di traghettare i comunisti italiani nell’area di influenza ideologica occidentale. Ma i grandi uomini e i grandi progetti spesso vengono equivocati ed interpretati con diffidenza dagli animi affetti di piccineria e dagli uomini offuscati dalla sete di potere.

Ma su Aldo Moro e sul 1978 tornerò ancora, se il lettore vorrà seguirmi. Adesso siamo ancora nel 1972, anche se molti avvenimenti di quell’anno sono come un preludio degli avvenimenti futuri, come d’altronde è per ogni vicenda umana.

continua…

Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486

https://www.youcanprint.it/biografia-e-autobiografia-generale/memorie-di-scuola-9788827845486.html