Concerto Furioso Andante

Capitolo Quarto

Se qualcuno avesse chiesto al re di Francia oppure all’imperatore, dove fossero Pavullo nel Frignano e Castelnuovo di Garfagnana, costoro, nonostante la loro grandezza, non avrebbero saputo cosa rispondere. Quasi sicuramente sapevano dove fossero Modena e Reggio, dato che le città erano feudi imperiali e, come tali, concesse agli Estensi con quel vincolo. Al loro posto avrebbe risposto con maggiore cognizione di causa il papa Leone X della famiglia fiorentina dei Medici.

Ma il duca Ferrante d’Este non ebbe mai timore, né riverenza o soggezione nei confronti dei papi, dei re e degli imperatori. Conscio della fragilità e della precarietà dei suoi possedimenti, al confronto dei colossi stranieri e dei molossi italiani, papalini, veneti o fiorentini che essi fossero, riuscì sempre a difenderli adeguatamente con delle opportune e strategiche alleanze, soprattutto dalle mire espansionistiche dei papi che avrebbero ingrandito volentieri il loro stato in danno del suo.

 La forza della diplomazia estense si incentrava su due cardini: l’ambiguità nelle alleanze, che lo portava a continuare ad intrattenere rapporti anche con i nemici; e l’acquisizione e il mantenimento di una reputazione che doveva servire a scoraggiare gli stati forti dall’aggressione nei confronti degli stati deboli.

Nelle sue vene, oltre a quello dei suoi nobili ascendenti catalani, scorreva anche sangue popolano; sicuramente quello di Gueraldina Carlino, l’amante napoletana di Alfonso V d’Aragona, sua bisnonna.

Con quel sangue popolano era transitata, nelle sue mani e nella sua testa, una grande abilità artigianale che il principe estense manifestava nella manifattura di oggetti in legno e ceramica e, soprattutto, mischiandosi all’ingente patrimonio genetico dei paterni avi guerrieri, nella modifica manuale dei cannoni e delle altre armi da fuoco allora in auge.

Certamente, come tutti i principi, non gli mancavano l’audacia, il coraggio e l’ingegno militare, ma fu questa sua grande abilità manuale nel potenziamento e nel perfezionamento delle armi da fuoco a fare la sua fortuna politica e a consentirgli di navigare illeso in quel mare periglioso che fluttuava impetuoso in quei primi decenni del secolo sedicesimo.

A ben vedere questa sua manualità artigianale si addiceva al suo piccolo principato. Al contrario degli altri principi altolocati, che possedevano regni estesi e incommensurabili, talvolta perfino separati dai mari e dagli oceani, e a differenza perfino dei papi, i suoi possedimenti egli poteva toccarli tutti con mano e li misurava con gli occhi.

 Forse per questo motivo godeva della benevolenza dei suoi sudditi. Alcuni, come quelli della Garfagnana, lo avevano prescelto fra i tanti pretendenti, com’era d’altronde successo anche per il Frignano ai suoi avi che, prima di lui, avevano posseduto quei territori, da sempre provincia agreste e montuosa della città di Modena.

E così, il duca artigliere, andava costruendo e difendendo il suo principato, pezzo per pezzo, come se fosse un’opera manuale.

Gli altri principi potevano osservare i loro feudi sulla carta, lui era fisicamente legato alle sue terre, che  conosceva metro per metro e con le quali aveva  un rapporto viscerale, stretto e sanguigno.

E la gente che vi abitava era il suo popolo, da proteggere, da difendere e da amare.

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Concerto Furioso Andante

Capitolo Terzo

Qualche tempo prima della partenza di Matteo da Scandiano per le sue terre in Garfagnana, il duca Ferrante aveva convocato un dei suoi messi più valorosi e fidati.

«Accomodatevi messer Rainulfo. Vi abbiamo convocato perché c’è un incarico per voi.» – esordì il duca.  Rainulfo si limitò ad assentire con il capo. Aspettò quindi che il duca entrasse nei dettagli.

«Vi ricordate ancora dove sta Pavullo in Frignano, nevvero?» – disse quindi il duca venendo al dunque.

«Certamente. Se non si fanno brutti incontri, da Ferrara, ci si arriva in una mezza giornata. Se avete urgenza anche meno.»

Il duca annuì soddisfatto. Il suo messo capiva sempre al volo. E nessuno conosceva quella zona impervia come Rainulfo; solo lui poteva portare a termine l’incarico che aveva in mente con successo.

«Dovete portare un messaggio verbale urgente a una vostra vecchia conoscenza: quel ribaldo di Cato di Castagneto»

«Dite pure, signor duca. Sono pronto a partire anche subito».

«Dovete informare Cato dell’arrivo del nuovo commissario, Messer Matteo da Scandiano, che voi, credo, conosciate almeno di fama.  Sollecitategli   una vigilanza pronta e attenta, soprattutto nei confronti di Domenico Marotto dei Carpineti, che da fonti certe mi risulta essere transitato dal libro paga del defunto papa Giulio II a quello del suo successore Leone X».

«Sarà fatto eccellenza»

«Visto che siete là, chiedete a Cato se abbia notizie della banda di Cantello di Frassinoro; anch’essa sconfina spesso nella vicina Garfagnana e non sarebbe male se Cato la tenesse d’occhio o magari la portasse dalla sua parte».

«A quanto ne so io Cantello di Frassinoro è rimasto quel cane sciolto che era; sempre pronto però, in cambio di soldi, a servire chiunque» disse Rainulfo.

«Bene. Prendete questi cinquanta ducati e dateli a Cato come anticipo per i suoi futuri servigi. Questi altri cinque sono per le vostre spese e il vostro disturbo. Partite immediatamente e contattatemi subito al vostro ritorno».

Come messo il duca aveva scelto Rainulfo Alberghetto, un suo uomo d’arme, coraggioso ma anche conosciuto dai banditi di Cato per essere stato uno di loro, prima che lo inserisse nelle sue guardie con incarichi speciali, a seguito di un episodio di valore, in cui il giovane bandito lo aveva difeso a rischio della sua stessa vita.

La collaborazione del bandito Cato con gli Estensi risaliva al 1510 quando il duca Ferrante, si era opposto, con l’aiuto della banda di Castagneto, anche al tempo da lui capeggiata, alle milizie pontificie che, dopo essersi impadroniti di Reggio e Modena, volevano allungare le mani anche sul Frignano e sulla Garfagnana.

In quell’occasione aveva conosciuto e reclutato il giovane Rainulfo, che gli aveva fatto scudo con il suo corpo durante un concitato parapiglia con alcuni papalini particolarmente intraprendenti e focosi.

Come ordinatogli il messo partì immediatamente. A spron battuto, in poco meno di due ore, da Ferrara giunse a Bologna, dove cambiò, alla posta, il suo cavallo. Dopo essersi rifocillato a dovere partì per il Frignano. Adesso era a circa metà strada; ma la seconda metà del tragitto era assai più lenta e più ardua da percorrere.

Rainulfo decise di procedere attraverso il passo Calderino. Si inerpicò per il versante appenninico, senza più spronare il suo cavallo, ma lasciando che fosse l’animale a scegliere la giusta l’andatura; in certi tratti particolarmente scoscesi e pericolosi, smontava da cavallo e proseguiva a piedi, incoraggiando il valoroso quadrupede a proseguire, guidandolo per le briglie. Sotto i suoi occhi vide il paesaggio mutare gradatamente.

 Boschi di quercia e castagno si alternavano a siepi, prati e a coltivazioni di cereali. Sui versanti più ripidi trovò estesi terrazzamenti di vigneti e orti con annesse dimore più o meno imponenti a seconda dei terreni circostanti.

Vi passò al largo, così come si tenne lontano dal castello dei Montecuccoli; anche se la famiglia era devota al duca, non voleva correre il rischio che si venisse a sapere della sua missione; doveva restare un segreto per tutti. Puntò invece direttamente alla locanda del Guercio, in località di Castagnedola. Il guercio in realtà non era il padrone, la locanda era in realtà di una mezzana di Guiglia; lui era soltanto l’uomo che l’aveva sottratta all’attività di prostituta, che svolgeva nel suo paese, quando l’aveva conosciuta.

La locanda era frequentata dagli sgherri di Cato e qualcuno lo avrebbe trovato lì di sicuro. Vi stazionavano come parte della loro strategia di controllo del territorio. Si sarebbe presentato e dopo un buon bicchiere avrebbe chiesto di essere accompagnato da Cato. Era inutile rischiare di essere assaliti e magari feriti a morte da qualche giovane affiliato che non lo conosceva e lo avrebbe potuto scambiare per uno sprovveduto viaggiatore, sperdutosi in quei scoscesi territori di nessuno.

 In tutta la provincia ducale, che comprendeva sia il Frignano e sia la Garfagnana, particolarmente nelle zone di confine, proliferavano infatti numerose bande di malviventi. Non tutti però erano sudditi del duca d’Este. Spesso accadeva che si associassero tra loro estensi, lucchesi, fiorentini e perfino lombardi. Questi malavitosi erano alquanto smaliziati e conoscevano bene i problemi e i cavilli della diversità di giurisdizione che favoriva un po’ tutti, reciprocamente, nella commissione dei reati in uno stato confinante, in quanto la perseguibilità era correlata a una estradizione difficile, se non impossibile, da ottenere. Per cui, commesso il reato, subito dopo, ripassavano il confine e se ne tornavano da dove erano venuti.

Il reato risultava così commesso in uno stato i cui organi giudiziari, senza la presenza fisica del reo non potevano agire; ed erano costretti a chiedere allo stato che li ospitava la cattura e poi la consegna ai propri organi di polizia.

 Ma se già era difficile la cattura per i reati commessi nello stesso stato, immaginiamo cosa potesse significare per le milizie locali la cattura per dei reati commessi altrove, in danno, presumibilmente, di cittadini stranieri.

 Quei territori erano così diventati una terra di nessuno, dove gli onesti vivevano nella paura, se non nel terrore e si viaggiava a rischio,  non soltanto dei propri danari e dei propri beni personali, ma soprattutto  a rischio della propria vita. E gli ignari forestieri venivano spesso brutalmente assassinati perfino da banditi che agivano a viso scoperto, incuranti e certi che l’avrebbero fatta franca.

Ai tempi in cui Rainulfo Alberghetto faceva parte della banda di Cato,   la locanda del Guercio, era frequentata anche dagli uomini affiliati ai Carpineti ma lui li avrebbe riconosciuti dal modo di vestire e di muoversi: gli uomini di Domenico Marotto  vestivano quasi come delle guardie regolari, con una camicia bianca con maniche lunghe a sbuffo, un pantalone a mezzo polpaccio; in  estate, poi,  la loro divisa   era completata da una specie di gilet smanicato e delle scarpe basse, mentre in inverno indossavano degli stivali  e delle casacche di panno pesante. Portavano con sé, senza mai separarsene, uno schioppo con avancarica a pallettoni;   quelli della banda di Cato, al contrario, vestivano in maniera più libera e fantasiosa, anche se tutti o quasi tutti i componenti indossavano dei copricapo di forma conica, agghindati con stringhe di cuoio o talvolta con nastri colorati,  avevano le gambe avvolte, con delle fasce di protezione che arrivavano sino alle ginocchia e si proteggevano dal freddo con degli ampi cappottacci di panno grezzo.

Al contrario degli altri, questi ultimi   giravano quasi sempre disarmati,  anche se gli si leggeva in faccia che erano dei pendagli da forca, pronti  a scannare la propria madre per meno di cinque ducati d’oro. E le armi da fuoco le avevano comunque nascoste nei pressi, sempre pronti ad imbracciarle in caso di bisogno, mentre in tasca avevano un affilato coltello, ufficialmente per i bisogni del desinare.

Non di meno, anche gli scagnozzi dei Carpineti, nonostante l’apparenza di guardie regolari, quando c’era da menar le mani o tirar di coltello, a danni di qualcuno che difendeva in maniera esagerata i suoi beni, non si tiravano certo indietro.

Il capo banda di Castagneto, Cato, fedele al duca d’Este, in realtà, non era un comune e volgare bandito di montagna. Egli era piuttosto un soldato d’armi, un mercenario, lo si sarebbe potuto perfino definire, non scevro da capacità organizzative e di comando, e non privo di una certa sua cultura.

Se non ci fosse stata la famiglia rivale dei Montecuccoli, ai quali non si erano voluti sottomettere, i Castagneto di Cato avrebbero agito alla luce del sole, in piena legalità.

Ma anche in quel modo inusuale e atipico, essi servivano lo stesso duca estense, il quale apprezzava i servigi offerti dalla   famiglia di Cato da Castagneto che, in senso lato, poteva ricomprendere anche Giuliano del Sillico e i Tanari di Gaggio, nella misura in cui essa costituiva un temperamento e un contraltare alla banda di  Domenico Bressi Marotto dei Carpineti, rivale di Cato e alleato  del papa.

Cato di Castagneto accolse con prontezza di spirito e buona predisposizione d’animo il messaggero del duca Ferrante. Con animo lieto e senso di gratitudine s’intascò i cinquanta ducati d’oro.

«È sempre un piacere rivederti Rainulfo Alberghetto» esclamò dopo averlo abbracciato e dopo avere intascato i suoi ducati. «E sono altresì lieto di compiacere il nostro amato duca Ferrante.  Riferiscigli che per lui sono pronto a gettarmi nel burrone più profondo di Pontecchio, dove le bande di quei gaglioffi, clericali amici del papa, si sono rifugiati!»

Rainulfo sorrise per le iperboli del suo antico sodale. Non era cambiato affatto.

«Ti fermi per il pranzo? Abbiamo tirato il collo a due capponi niente male, grassi quanto basta per sfamarci tutti quanti in abbondanza, non è vero ragazzi?» disse rivolto ai suoi sgherri, quando ormai si erano accomodati in una roccaforte semi diroccata che fungeva da rifugio e protezione dopo le loro frequenti scorribande. I suoi uomini assentirono con un grugnito di piacere e un ghigno di soddisfazione, senza smettere di giocare, chi ai dadi, chi alle carte; qualcuno perfino agli scacchi.

«Sua eccellenza il duca mi ha raccomandato di tornare subito a riferirgli l’avvenuta commissione!»

«E tu l’hai fatta! E anche bene! Bevi almeno un altro bicchiere di vino!»

«Senti», aggiunse ancora Cato mentre il messo beveva il buon vino offertogli «dirai al duca che quando lui reputi pronta l’occasione decisiva per liberarsi definitivamente della banda dei Carpineti, noi siamo pronti al suo servizio!»

«Glielo dirò», disse Rainulfo posando il bicchiere e levandosi in piedi. Sapeva bene che il suo ex sodale Cato non agiva certo per motivi politici o per amore del suo duca. Rivaleggiando con la sua, la banda dei Carpineti lo costringeva a dividere il pingue bottino costituito dalle case e dalle fattorie del Frignano e della Garfagnana, esposte e disponibili ad ogni saccheggio e grassazione che praticamente restavano impuniti. Ma certo evitò di dirlo al suo vecchio compagno di soperchierie.

«Potrei schiacciarli per sempre con l’aiuto di alcuni fidati alleati; insieme possiamo arrivare a mettere insieme sino a trecento uomini, tutti coraggiosi e opportunamente armati. Glielo dirai al signor duca?»

«Stai pur tranquillo che glielo dirò» lo rassicurò Rainulfo.

«E che si affaccino pure Mimmo Marotto e i suoi sgherri, a tentare di importunare il nuovo commissario del duca nostro padrone! Riferiscigli pure di stare tranquillo che la nostra banda sarà vigile, notte e giorno, sull’incolumità del nuovo commissario e di tutti i suoi interessi, contro le bande rivali e contro lo stesso papa di Roma!» gli gridò dietro mentre quello già era risalito a cavallo per ripercorre all’incontrario la stessa strada fatta all’andata.

Concerto Furioso Andante

Capitolo Secondo

Il Ducato d’Este era uno dei più piccoli fra gli stati italiani indipendenti. Non il più piccolo, certo; ma era una magra consolazione per il duca Ferrante pensare che ci fossero la repubblica di Lucca e il principato di Massa, entrambi  con un territorio meno esteso del suo. Per fortuna il suo ego smisurato, la sua nobile, secolare ascendenza e le sue alleanze, invero alquanto mutabili, gli impedivano di soffrire di claustrofobia, nonostante i suoi domini fossero circondati da elementi ostili.

Lo stato della Chiesa, mai messo del tutto a tacere,  dopo la morte del suocero Alessandro VI Borgia, oltre  agli antichi privilegi feudali su Ferrara, sembrava avanzare delle pretese perfino sulle città imperiali  Modena e Reggio.

Il Granducato di Toscana, della famiglia Dei Medici, da sempre suoi acerrimi nemici e rivali, erano risultati vincitori persino  nelle pretese del soglio papale a danno di suo fratello cardinale; e non erano mai cessate con Firenze le dispute territoriali.

   La repubblica di Venezia la quale, da sempre sua nemica numero uno, da un po’ di tempo, minacciava i suoi possedimenti al confine nordorientale.

 Per fortuna aveva per amico almeno il ducato di Milano, pur conteso dai Francesi agli Sforza e il marchesato di Mantova dei Gonzaga; inoltre, grazie alle sue potenti e famigerate artiglierie, si era fatto un alleato prezioso nella Francia.

Restavano quei miserabili di Lucca a contendergli i territori al confine occidentale; ma il duca, non avrebbe mai ceduto neppure un centimetro della provincia di Garfagnana.

Proprio lì, al contrario, aveva le sue mire espansionistiche, con il neanche tanto celato obiettivo di conquistare uno sbocco sul mar Tirreno che, seppure non alternativo a quello sull’Adriatico, raggiungibile dai suoi possedimenti attraverso il fiume Po, ma con lo sbocco in territorio di Venezia, avrebbe allentato la sua dipendenza marittima dagli scomodi vicini veneziani.

E la Garfagnana era un tassello importante di questo mosaico che gli Estensi andavano componendo. Dal Frignano, provincia modenese in mano loro da tanto tempo, si erano di recente allargati verso ovest, sino a Castelnuovo, grazie alla benevolenza che gli stessi garfagnini avevano mostrato al suo casato; e anche se alcuni paesi della regione erano rimasti fedeli alla repubblica lucchese, non di meno, da quel territorio il duca sentiva il mare più vicino.

 E lì, nel Tirreno, il suo sogno si sarebbe realizzato. Ecco perché avrebbe difeso quella regione di nuova acquisizione con le unghie e con i denti; con ogni mezzo, lecito e anche illecito, se fosse stato necessario. E in quelle terre, nel Frignano e nella confinante Garfagnana erano più efficaci i metodi non ortodossi, dato che entrambe le provincie erano infestate da bande di  briganti e malfattori che, approfittando della conformazione geografica di quei territori e della loro lontananza dal centro, la facevano, o avrebbero voluto farla, da padrone; se non fosse stato che il duca Ferrante si era da tempo alleato con alcune delle famiglie che costituivano l’ossatura principale di queste bande di razziatori e banditi.

I papi di Roma, d’altro canto, avevano brigato con le famiglie avversarie di quelle alleate con il duca, così che la zona del Frignano e della Garfagnana,  erano divenute un campo di battaglia dove le famiglie locali che ambivano al potere, si facevano la guerra per interposta persona, le une parteggiando per lo Stato della Chiesa, quelle altre invece alleandosi con i principi estensi; e gli uni e gli altri finanziavano le diverse bande a suon di ducati d’oro.

Chi ci rimetteva di più, in tutto questo, erano gli onesti abitanti delle due provincie, vessati e angariati da più parti, costretti anch’essi a schierarsi con il più forte ma senza garanzia di risultato e di legalità.

Concerto Furioso Andante

Capitolo Primo

La notte prima della sua partenza per Castelnuovo di Garfagnana, Messer Matteo aveva sognato di trovarsi in sella a un cavallo scalmanato. Nel sogno lui si sentiva un marinaio veneziano ma si era deciso a cavalcarlo per compiacere il facoltoso donatore di quel meraviglioso quadrupede. Così, nel tirare all’indietro le redini del destriero, pensava piuttosto di manovrare il timone di una imbarcazione; ma la paura e l’insicurezza gli facevano stringere i piedi speronati sui fianchi del povero cavallo. Col risultato che la sua cavalcatura non sapeva se ubbidire al comando sulle redini, che gli imponeva di fermarsi, oppure assecondare il morso dello sprone, lanciandosi in avanti. Il risultato di questi suoi comandi schizofrenici fu di ritrovarsi sbalzato a terra, mesto e dolorante.

Il malumore e gli interrogativi che quel sogno gli avevano procurato persistevano ancora quando, dopo cinque ore di viaggio, si fermò alla stazione di posta di Pavullo nel Frignano, per la prevista pausa del pranzo.

Cosa rappresentava quel cavallo infuriato? E perché lui, da sempre avversario di Venezia, si figurava un marinaio veneziano in quello strano sogno? E chi era mai quel facoltoso donatore?

A questi interrogativi se ne aggiungevano degli altri che riguardavano il suo incarico di commissario in Garfagnana per conto del duca Ferrante d’Este.

Non aveva avuto il coraggio di negarsi a quell’incarico, non volendo correre il rischio di rompere anche con lui, dopo che i rapporti con il cardinale Martino, fratello del duca, si erano guastati da tempo. Ed era pur vero che per quell’incarico non si sentiva tagliato, ma proprio per questo voleva mettersi alla prova e misurarsi con qualcosa di nuovo e di diverso che dimostrasse a se stesso e agli altri che lui non era soltanto un uomo di lettere e di pensiero.

Ma quello che lo faceva soffrire di più era che partendo, sarebbe stato lontano dalla sua amata Lucrezia.  E a giustificarsi per questo motivo c’era inoltre rischio che venisse canzonato, lui, quasi cinquantenne, mostrandosi in preda agli afrori amorosi, come un giovinetto di primo pelo; senza contare che il disvelamento di quella intima relazione amorosa gli sarebbe potuta costare la titolarità dei privilegi ecclesiastici di cui godeva come chierico. E come avrebbe provveduto, in tal caso, ai suoi nove fratelli e, in particolare, alle sue cinque sorelle, tutte in procinto di maritarsi e bisognose di una congrua dote?  L’onere di provvedervi spettava a lui, in quanto primogenito, dopo la morte di suo padre.

A ben vedere la vera molla che lo aveva spinto ad accettare quell’importante incarico, non era stato  il vile danaro. Certo, lui da quell’incarico di commissario sperava di ricavarne un gruzzolo che gli avrebbe consentito di costruirsi una casetta tutta sua, dove ritirarsi a coltivare i suoi studi e la sua passione per la scrittura e la letteratura.

E però, dietro quella sua scelta, pur sofferta e contrastata, c’era anche il suo profondo desiderio di giustizia. Conosceva infatti di fama quanto fosse pericolosa quella regione, abitata da uomini rozzi e indisciplinati e infestata da numerose bande armate di fuorilegge. Voleva appagare la sua sete di giustizia, riportando l’ordine e la legalità in quel territorio che lui sapeva devastato dalle scorribande di ribaldi e assassini, preda delle sopraffazioni e delle ingiustizie di individui prepotenti e di intere famiglie che si ponevano al di fuori e al di sopra della legge e dell’ordine costituito.

Non di meno intuiva bene che quella missione non era scevra da pericoli per la sua stessa incolumità; a incominciare proprio dal viaggio.

C’era persino stato due volte in precedenza, e in entrambe le occasioni era rimasto colpito dalle asperità di quel territorio, accidentato e quasi inaccessibile, tutto anfratti e dirupi.

Al momento di formalizzare l’accettazione del suo incarico il duca lo aveva ampiamente rassicurato sugli strumenti e sulle forze necessarie a combattere il malaffare e le ingiustizie di quella travagliata e remota provincia ducale.

Ma come mai, invece, il duca non gli aveva dato neppure una misera scorta armata? E chi avrebbe provveduto a difenderlo in caso di un assalto da parte dei numerosi banditi che infestavano la zona?

Fu mentre il suo convoglio stava per lasciare il Frignano e la Vicaria di Camporeggiano, poco dopo Rodea, e poco prima di entrare nel territorio della sua futura giurisdizione, che le sue paure sembrarono prendere improvvisamente corpo. Udì uno scalpitio e delle urla forsennate dietro di lui. I suoi accompagnatori lo interrogarono con uno sguardo atterrito. Il suo sangue freddo ebbe però il sopravvento e ordinò al cocchiere di fermarsi.

«Messer Matteo da Scandiano?» – gli chiese un cavaliere con una faccia patibolare, chinandosi verso la carrozza. Messer Matteo notò che il cavaliere era solo. Forse i suoi accoliti si erano nascosti in attesa di ordini.

«In carne e ossa! Cosa c’è? Cosa volete?» – rispose Messer Matteo con voce ferma, simulando una sicurezza che in quel momento non provava.

«Voi non mi conoscete. Sono Pierino Pacchioni, uno dei luogotenenti di Domenico Marotto dei Carpineti per servirla e volevo scusarmi di non averla omaggiata al suo ingresso nelle nostre terre. Son qui per rimediare!» – rispose quello con enfasi levandosi il cappello piumato che gli ricopriva il capo.

Messer Matteo sorrise in segno di ringraziamento. Non poté fare a meno di pensare che anche quelle terre erano del duca e che in sua vece le governava il commissario ducale Cesare Cattaneo e che comunque quelle non erano le terre dei Carpineti ma casomai dei Montecuccoli; tuttavia non reputò opportuno manifestare queste sue contrarietà ma si limitò a ringraziare, sorridendo ancora, imitato dai suoi accompagnatori che avevano addosso più timori di lui.

«Servo vostro!» – disse il bandito accommiatandosi.

Quando furono abbastanza lontani il vice notaio camerale Boschetti, che il duca gli aveva voluto affiancare per la sovrintendenza sui  registri dei tributi, dei censi e dei livelli del commissariato, ripresosi dallo spavento farfugliò  qualcosa sui Carpineti, dicendo che lui li sapeva sul libro paga del papa Leone X. Ragionarono  per un po’ sulle fazioni e sulle lotte che caratterizzavano quei turbolenti territori e delle difficoltà, non certo ignote, di affermare la giurisdizione del loro duca, se non con l’indispensabile appoggio delle milizie stanziali.

Si chiesero inoltre che senso potesse avere quell’omaggio che comunque, se non proprio sinistro, suonava quantomeno ambiguo. Era forse una minaccia velata? Un avvertimento che dichiarava la loro presenza nel territorio? Oppure una richiesta di tregua?

Nessuno poteva avere delle risposte certe; né il vice notaio camerale, né il suo segretario personale, il camerlengo Zoboli.

Quel che era certo, anche se i nuovi emissari del duca non potevano saperlo, è che le bande rivali dei Carpineti e di Cato di Castagneto, pur avendo la base operativa nei pressi di Pavullo in Frignano, operavano con i loro uomini anche nel territorio confinante della Garfagnana, e avevano i loro uomini sparsi in tutto il territorio, sino all’estremo limite di  Castelnuovo, il capoluogo dov’era diretto Matteo da Scandiano, ove si ergeva, imponente e maestosa, la roccaforte degli Estensi, da tutti ritenuta, sino a quel momento storico, inespugnabile.

E non potevano neppure sapere che stavano maturando, da parte dei mandanti di tutte le forze in campo, dei progetti così complessi e grandiosi, che andavano ben al di là della loro personale incolumità

Intanto la carrozza si era spinta dentro la Garfagnana, lasciandosi alle spalle il Frignano.  Dopo i commenti su quell’incontro pericoloso e misterioso allo stesso tempo, la stanchezza del viaggio ebbe il sopravvento su tutti loro. E subentrò il rilassamento che sempre consegue, tanto più dopo uno scampato pericolo, al volgere di un impegnativo viaggio.

E gli affannati pensieri li accompagnarono sino a notte fonda, quando, dopo oltre dieci ore di viaggio, da quando erano partiti da Ferrara, giunsero a Castelnuovo.

Messer Matteo si sentiva sfibrato nel corpo e nello spirito ma per fortuna era giunto incolume a destinazione.

I Nuovi Baroni

Capitolo Quarto

Il giorno dopo, all’alba, Giaime Cossu era già in viaggio. Aveva scelto come accompagnatore un giovane prestante, svelto di coltello e abile cavallerizzo. Il giovane gli era debitore, per averlo tolto dai guai quando lo avevano incriminato per avere accoltellato un uomo che gli contendeva i favori di una popolana, proponendosi di essere un suo protettore, pur non avendo la forza necessaria per proteggerla veramente, almeno non nei confronti di Diego Murenu, più alto di una spanna di quel sedicente protettore, più forte e sicuramente dal carattere più volitivo e deciso.

Per fortuna il suo rivale non era morto e lui si era offerto di pagare le cure per farlo guarire. Diego Murenu dal giorno aveva rigato dritto, affiancando suo padre nell’attività di pescatore; attività che lasciava però volentieri, ogni volta che il suo salvatore, verso il quale provava una profonda gratitudine, scevra però da ogni piaggeria, ne aveva avuto bisogno.

 Tanto più che la retribuzione che gli garantivano quelle episodiche collaborazioni, non facevano certo rimpiangere i magri profitti della pesca in mare.

Lungo la strada, attraversando i campi, Giaime Cossu, seguito a cavallo dal suo fido accompagnatore Diego Murenu, osservò con attenzione i campi di grano, già in gran parte mietuti, e le vigne rigogliose ben curate, che mostravano già i primi tralci ancora acerbi. Si inebriò di quei colori e degli odori che la campagna emanava. I numerosi braccianti addetti ai lavori dei campi raramente sollevavano le schiene ricurve per osservare quei due forestieri. La fatica era più forte della curiosità. Giaime notò tuttavia che erano i padroni, o quelli che dirigevano le attività agricole a rivolgergli un cenno di saluto, dopo averli osservati con quello sguardo di diffidenza e curiosità tipico dei contadini alla vista dei forestieri. In questi casi anche lui si limitava a un fugace cenno di saluto, educato ma non troppo espansivo.

Poco prima di mezzogiorno giunsero a Villa di Sor, alla casa di Don Gavino Palacio, adiacente alla Rettoria di cui il religioso era a capo. Furono introdotti alla sua presenza dal suo campanaro e sagrestano, nonché portinaio e factotum Luisu Caboi.

Don Gavino Palacio era un uomo dal fisico prestante e dal carattere forte. Il capostipite della sua famiglia, di solida origine iberica, era stato un hidalgo di nome Rodrigo, sbarcato in Sardegna al seguito di uno dei tanti viceré spediti da Madrid al tempo della dominazione spagnola, per domare, sottomettere e spremere quel regno arcano, che come altri possedimenti, adornavano la corona del suo sovrano. 

Anche quel regno, più vicino, più piccolo e più povero degli altri   territori lontani, che rappresentavano il mitico “El Dorado” delle Americhe, per meritare un tale elevato onore, aveva il dovere di contribuire fattivamente al sostentamento della corona spagnola, per la gloria superiore dello stesso re, della sua nobiltà, piccola o grande che essa potesse essere, e della religione cattolica.

Don Rodrigo Palacio, cha apparteneva alla più piccola delle classi nobiliari della corona spagnola, all’apice della sua personale carriera, quando ormai, non soltanto la gloria del siglo de oro, ma anche quella più modesta dell’ultimo dei Borbone stava transitando nel crepuscolo della storia, era assurto al grado di Capitano Regio.

 Sarebbe però morto in miseria, più o meno come aveva vissuto sino ad allora, se non avesse avuto la fortuna di sposare la ricca e giovane vedova di un facoltoso notaio di Monastir, un certo Clemente Sanna ch’era riuscito, grazie alla sua prestigiosa professione, ad accrescere in maniera considerevole il patrimonio dei suoi avi.

Con l’aiuto di un bravo avvocato e grazie a una specifica disposizione testamentaria, la bella vedova era riuscita a salvare una fetta consistente del patrimonio del defunto marito dagli assalti famelici dei cugini e dei nipoti.

 E dove non erano riusciti utili i codicilli e le pandette di quell’aggrovigliato e complesso ordinamento giuridico che costituiva l’ossatura dei rapporti economici della società sarda di allora, ci avevano pensato il carisma militare e gli appoggi altolocati che l’hidalgo spagnolo era riuscito a trovarle, in rafforzamento delle sue ragioni ereditarie.

 Dalla coppia erano nati due figli maschi: Vincente e Ferdinando e una femmina di nome Isabela.

  I due figli maschi, in forza delle norme successorie dotali che prevedevano, per mantenere integri i grossi patrimoni terrieri, di liquidare le donne con una dote in danaro contante, onde lasciare così le terre in eredità ai soli figli maschi, avevano liquidato la sorella con una congrua dote.

 Ferdinando, poi, dotato di una maggiore predisposizione agli studi, aveva scelto una carriera alternativa alla gestione delle proprietà familiari ed era stato anche lui liquidato con una sostanziosa somma in danaro sonante.

 Ma quando Vincente era morto senza figli, il patrimonio originario della moglie del capostipite Rodrigo era tornato indietro a don Ferdinando Palacio e, successivamente, ai suoi due figli Carlos e Victorio.

Dei numerosi figli del primo, erano sopravvissuti soltanto Consuelo e Gavino, nati a distanza di quasi vent’anni, che vivevano insieme nel Rettorato Maggiore del marchesato di Villa Sor, mentre del secondo, l’unica figlia era Mercedes, la moglie del Reggente della Cancelleria Reale Giovanni Maria Meloni.

Novecento starelli di terreno fertile, per metà seminativo e per l’altra metà coltivato a ulivi, vigne e frutteto, al confine con la villa di Monastir, erano la parte toccata ai tre cugini di quell’antica ricchezza, entrata nel loro possesso non come proprietà infeudata, ma come attribuzione dominicale che però godeva del privilegio dell’esenzione ecclesiastica.

E questa era la ragione per cui donna Mercedes l’aveva lasciata nel possesso del cugino religioso, accontentandosi di modeste rendite, che certi anni arrivavano in ritardo o arrivavano dimezzate, con il tacito e inespresso accordo che un giorno la proprietà si sarebbe ricomposta in capo a lei per intero.

Tanto più che Giovanni Maria  Meloni, grande esperto di questioni giuridiche, studiando le carte dei possedimenti di sua moglie, aveva intravisto una serie di  clausole oscure che gli avevano suggerito l’opportunità di lasciare la proprietà ancora indivisa, in attesa che l’ordinamento giuridico si proiettasse in una dimensione più liberale, suscettibile di recidere una volta per tutti i legami con quel coacervo aggrovigliato di norme e consuetudini che soffocavano, insieme all’economia della Sardegna, anche i singoli individui che avevano la sventura di trovarsi di fronte a un consesso di giustizia.

A dispetto delle sue sicure origini iberiche, don Gavino Palacio tuttavia, non sembrava parteggiare affatto per i feudatari, connazionali del suo capostipite Rodrigo. Al contrario, le sue simpatie andavano all’altro dei due partiti che all’epoca si fronteggiavano fieramente, quello dei lealisti savoiardi.

Non che don Gavino si sentisse particolarmente trasportato a simpatizzare per il partito dei piemontesi, contro quello degli spagnoli.

 Egli aveva opportunisticamente valutato che la condizione di miseria in cui versavano i vassalli degli antichi feudatari spagnoli, indirettamente si ritorceva contro di lui.

Se  infatti  quegli sventurati si fossero affrancati dagli antichi  balzelli feudali,  la ricchezza delle terre infeudate, anziché prendere il volo verso Vienna e verso Madrid, ad accrescere le casse degli avidi baroni di quegli antichi  imperi ormai al tramonto, sarebbe rimasta in loco e di quella nuova prosperità lui sarebbe stato il primo a usufruirne, grazie alle offerte per i suoi inflessibili tariffari: un tot di lire sarde o piemontesi per il Battesimo, almeno qualche scudo per il matrimonio e molti di più per l’ultimo viaggio, quello più costoso e bisognevole di preci accompagnatorie. 

 Senza contare che tra le terre infeudate ve n’erano non poche che confinavano con le sue proprietà; e una volta riscattate, lui avrebbe potuto ampliare i suoi confini, senza suscitare le proteste di alcuno.

Nell’applicazione del suo tariffario il Rettore Palacio era inflessibile e i suoi fulmini cadevano implacabili su quelli che non provvedevano a sistemare in anticipo e in maniera soddisfacente l’incombenza.

In tali casi, durante l’omelia della cerimonia   matrimoniale poteva capitare ai malcapitati sposi, ch’egli citasse la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, ai versetti 25-31 del Capitolo Settimo, rimarcando con ferace precisione, il riferimento alle tribolazioni della vita matrimoniale e la volatilità dei suoi piaceri.

E se fossero appartenuti alla classe prima, quella dei Printzipales, o anche alla seconda, quella dei Mezzani (per quelli della terza classe non c’era alcun pericolo, perché don Gavino Palacio le cerimonie le passava al suo vicario, adducendo improrogabili e insormontabili impegni), allora aveva pronte le ammonizioni contenute nei versetti da 23 a 26  del Capitolo Sesto del Vangelo di  San Luca, per avvertirli sulla perniciosità della loro ricchezza, che si poteva scansare, insieme al fuoco delle pene eterne, con congrue donazioni agli uomini di chiesa come lui.

Insomma don Gavino Palacio non brillava certo per le sue doti spirituali, anche se all’età di cinquantacinque anni, sembrava essersi avviato a una savia vecchiaia e a una gestione, se non altro, ordinata della sua Rettoria. E questo grazie anche a sua sorella Consuelo, la vera, autentica anima spirituale della famiglia.

Ma l’occhio materiale di don Gavino continuava a pungere. Lo stesso occhio che si puntò con sospetto sopra Giaime Cossu e sopra il suo accompagnatore, quella mattina.

«Ah, dunque è mia cugina Mercedes che vi manda? E per che cosa di specifico?», disse dopo aver letto la lettera di presentazione che Giaime gli aveva consegnato, dando così a intendere di non accontentarsi di quella spiegazione così vaga e generica. Il suo animo sospettoso era esacerbato dal pericolo che quel messo potesse ostacolare il suo godimento indisturbato delle comuni proprietà terriere.

«Donna Mercedes mi ha raccomandato di porgervi anche questi, insieme alle mie riverenze e ai suoi saluti», disse per tutta risposta il messo cagliaritano consegnando al prelato il più pingue dei due sacchetti, quello contenente trenta scudi d’argento.

Il tintinnio del contenuto del sacchetto di monete fece cambiare atteggiamento al prelato, facendolo sorvolare sul fatto che si sarebbe aspettato almeno un congruo preavviso per quell’ospite inatteso e perfino indesiderato. Se sua cugina gli mandava dei danari voleva dire che non se ne aspettava da lui. A maggior ragione, poiché si sentiva in colpa per non averle mandato alcuna rendita nel corso dell’anno già avanzato.

«Questi scudi d’argento ci fanno davvero comodo», disse intascando la bella somma. Tanto più che quest’anno i nostri terreni osservano l’anno paberile, come nostra cugina sa per certo».  Don Gavino tacque la circostanza che era soltanto la metà della proprietà comune ad essere soggetto all’anno di quiescenza che,  per antica consuetudine,  si alternava ai due anni in cui venivano seminati i cereali e che l’altra metà aveva dato un’abbondanza di frutta mai vista prima; e comunque anche quella metà, nell’anno di riposo, veniva data in affitto ai pastori che non potevano mancare di compensare il proprietario riconosciuto con ricche prebende, soprattutto in materia prima; il che significava latte, formaggi e carne di pecora e di mucca assicurata per tutto l’anno, giorni feriali e feste comandate incluse.

«Ma prego, entrate cavaliere. Adesso farò sistemare il vostro scudiero e i vostri animali negli alloggi adiacenti alla stalla mentre vi introduco alla padrona di casa, mia sorella Consuelo, che sarà ben lieta di conoscere l’inviato della nostra amata cugina Mercedes».

Giaime Cossu ebbe un’accoglienza calorosa da parte della sorella del Rettore. Tanto le sembrò gentile e ospitale, quanto il fratello gli era parso arcigno, sospettoso e scorbutico. Donna Consuelo era molto avanti negli anni, ma nonostante contasse già settantacinque anni, appariva ancora vigorosa sia nei movimenti che nella favella; serbava nei lineamenti del viso, nonostante i segni dell’età avanzata, un’antica bellezza, di cui si poteva scorgere ancora qualche riflesso, nel bagliore dei suoi occhi celesti. Al contrario di suo fratello, e a dispetto della sua vecchiaia, sembrava contare su una dentatura quasi perfetta, mentre don Gavino, come aveva denotato il suo pestifero alito, che Giaime suo malgrado aveva dovuto sorbirsi mentre quello, all’inizio, lo investiva dei suoi istintivi e alitosi sospetti, doveva fruire già di qualche protesi, come si notava anche dalle sue difficoltà nel parlare.

«Venite che vi mostro la vostra stanza. Vi manderò poi su la vostra attrezzatura con dell’acqua per rinfrescarvi e vi aspettiamo dabbasso per il pranzo. Così potremo parlare di nostra cugina; e anche di voi se vi farà piacere».

«Grazie donna Consuelo, ma di me non c’è un granché dire», si schermì cortesemente il sedicente inviato di donna Mercedes Palacio, che non voleva però sembrare scontroso. «Scusate ma i miei strumenti sono troppo preziosi e delicati e vanno maneggiati con cura sapiente; sapete, sono strumenti di precisione» aggiunse caricandosi il cannocchiale e il celerimetro, con il resto della copiosa documentazione che si era portato appresso da Cagliari.

«Non vi preoccupate, non ci mancheranno certo gli argomenti di discussione. Avrete saputo sicuramente dell’uccisione del Sostituto Podatario del marchese Da Silva?»

Il messo del Reggente cercò di nascondere il suo vivo interesse. Ma ci pensò lo stesso don Gavino a distogliere l’attenzione della sorella. «Non poteva ammazzare qualcun altro quel benedetto Antoni Pinna? Avevo già concordato con la buonanima di don Josep Mendoza un compenso di sette scudi d’argento per la cerimonia religiosa di infeudamento! E i miei scudi d’argento hanno preso il volo con quel disgraziato!»

«Don Gavino!», lo rimproverò bonariamente donna Consuelo. Era l’unica persona al mondo capace di fare un rimprovero a quel caratteraccio terribile che neanche i diversi vescovi che si erano avvicendati in diocesi erano riusciti a dominare.

«Certo, certo, avete ragione! Réquiem aetérnam dona eis, Dómine», disse il canonico con un gesto appropriato della mano della mano destra.

«Et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace», disse donna Consuelo segnandosi devotamente.

«Amen» concluse Giaime imboccando le scale appresso alla sua ospite.

«Io vado a controllare che tutte le entrate siano chiuse per bene. Di questi tempi non si sa mai».

«Ci vediamo a pranzo» gli disse la sorella con un sorriso per farsi perdonare il rimprovero di prima.

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I Nuovi Baroni – 3

Capitolo Terzo

«Eccovi trenta scudi per il canonico maggiore e altri venti per voi. Con i primi predisporrete l’animo di quel vecchio taccagno in sottana, alla migliore ospitalità nei confronti vostri, mentre coi secondi gestirete il vostro viaggio e il vostro soggiorno nella Villa, procurando di aprire la borsa per pagare le informazioni più corrette da raccogliere, vagliare e trasmettere direttamente a me. Avete delle domande? Pensate di avere bene inteso i vostri compiti?»

Giaime Cossu intascò le due borse, riponendole al sicuro in una tasca interna della sua giacca.

«Sono un poco in ansia per questi preziosi strumenti che mi state assegnando. Non sono neppure tanto sicuro di saperli utilizzare».

«Non fate il modesto. Non avrete fatto misurazioni ai corsi della Scuola Superiore di Statistica?»

«Sì, forse, ma son passati troppi anni per ricordare. E comunque si sarà trattato più che altro di misurazioni finalizzate ad estrapolare delle grandezze come esercizio teorico».

«E che problema c’è? Adesso passerete alla pratica sul campo».

«Ma è la proiezione cartografica a preoccuparmi. Come riporterò le mie misurazioni angolari sulla carta?»

«È più semplice di quanto non sembri. Intanto portatevi appresso queste vecchie planimetrie dell’Archivio Reale: sono state realizzate dai censori agrari e abbastanza fedelmente riportano quei terreni. Poi chiedete in giro i nomi dei vari appezzamenti e riportateli sulla carta insieme a delle misurazioni e ai rilievi angolari. Se qualcuno controllasse per errore o per malizia le vostre carte, troverebbe che avete comunque tracciato delle mappe. D’altronde chi sarebbe in grado di smentirvi nell’uso degli strumenti che vi state portando appresso? Volete scommettere che in Villa Sor non c’è una sola persona capace di dare un nome a questi strumenti?»

«Quindi, riepilogando, cosa mi state consegnando da portarmi appresso?», chiese Giaime Cossu, convinto dalle razionali argomentazioni del suo superiore.

«Un compasso di proporzione tascabile, un cannocchiale Semitecolo e un celerimetro di Porro completo di custodia in legno».

«Bene», disse l’inviato prendendo in consegna la strumentazione scientifica che gli avrebbe garantito una copertura per le sue indagini segrete.

«Prendete anche questi altri documenti, una fedele riproduzione della Carta Manoscritta di Domenico Colombino e la “Carte Generale du theatre de la guerre en Italie” redatta dal topografo di Napoleone, con la rete stradale sarda. È una piccola biblioteca itinerante con la quale potrete dimostrare che state facendo sul serio il vostro lavoro».

«Quanto tempo dovrò stare in Villa?», disse l’uomo ricevendo il materiale cartaceo.

«Dipende. Ufficialmente il vostro lavoro non è certo semplice. Vi manderò io disposizioni, se necessario, in risposta a quanto mi farete sapere della situazione. Vi raccomando ancora discrezione. E non esponetevi ad alcun pericolo. Anzi, se voi vedeste dei pericoli per la vostra incolumità, tornate subito in città ad avvertirmi. Le ultime notizie giunte dalla Villa non sono state certo tranquillizzanti».

«Ho capito».

«Un’ultima cosa. Questa è una lettera di mia moglie per il Rettore suo cugino. Ditegli che è riservata. Tanto sono sicuro che, anche se non sarà lui il primo a spiattellarne il contenuto, qualcuno la troverà in giro per la casa e la leggerà a beneficio degli altri che vorranno sapere. Rafforzate la vostra copertura di sovrintendente e curatore dei beni della sua amata cugina. E non temete alcunché dal canonico Palacio: quando capirà che non siete lì per chiedergli soldi, anzi gliene portate in aggiunta a quelli che già dovrebbe versare alla cugina, vi accoglierà con buon garbo per tutto il tempo necessario».

«D’accordo», disse Giaime Cossu con un sottile sorriso d’intesa intascando anche la lettera che il suo superiore gli porgeva.

«Quando pensate di partire?»

«Domani all’alba».

«Bene. Appena avrete delle novità di rilievo, redigete il primo dispaccio e mandatemelo con il vostro servitore. Fatelo viaggiare presto e per i sentieri più sicuri.»

«Certamente. Volete che vi scriva in linguaggio criptato?»

«No, meglio di no. Indirizzate la lettera alla Reale Cancelleria ma con il nominativo della vostra mandante di copertura».

«Donna Mercedes Palacio?»

«Sì, certo. Scrivete rivolgendovi a lei e utilizzate magari delle metafore oppure delle perifrasi. Giusto in caso intercettino le missive. Anche se l’utilizzo del corriere personale dovrebbe rendere più difficile l’intercettazione».

«D’accordo».

«Come viaggerete?»

«A cavallo. Meglio evitare la carrozza. Attira l’attenzione dei briganti di strada e poi si noterebbe troppo all’arrivo; e io voglio arrivare quanto più inosservato posso».

«Bravo. Ben detto», approvò il Cancelliere Reale. I soldi per addestrare quell’uomo erano stati spesi bene. Dai suoi istruttori torinesi aveva imparato bene l’arte di muoversi senza troppo scoprirsi, di osservare senza essere osservato, di cogliere le cose più importanti per riferirle in sintesi a chi di dovere.

«Allora buon viaggio a voi, maggiore. E tenetemi informato più che potete» disse il Reggente della Reale Cancelleria stringendo la mano dell’uomo. L’inviato gli sorrise senza dire niente altro.

Nonostante fosse un suo superiore, Giovanni Maria Meloni provava un grande rispetto per quell’uomo. Non tanto per quei pochi anni che aveva in più di lui, che non potevano certo mettere in soggezione l’uomo più potente del Regno di Sardegna, dopo il viceré, ma piuttosto per i suoi trascorsi personali e per la tradizione familiare che accompagnavano il suo stato di servizio. 

Giaime Cossu era un uomo di statura media, dal fisico asciutto, che dimostrava meno dei suoi quarantaquattro anni. Il titolo di cavaliere lo aveva ereditato dal padre Giacinto, morto da eroe durante la cruenta battaglia con la quale i volontari Sardi, accorsi alla chiamata alle armi del viceré Balbiano, respinsero i quattromila soldati Francesi sbarcati nell’isola nel gennaio 1794.

Sulle ali di questa eclatante vittoria sui Francesi, i politici di Torino, si decisero finalmente ad accogliere una delle più annose richieste dei Sardi, sostenute invero da più di un predecessore di Balbiano: quella di attribuire ai nativi isolani tutti gli impieghi pubblici, escluso quello del sostituto del Re. Si decise così di cominciare ad assumere nei ranghi della pubblica amministrazione quei Sardi che si fossero distinti nella battaglia di Quartu Sant’Elena contro i Francesi, attribuendogli le mansioni più confacenti ai loro titoli di studio e alle esperienze professionali pregresse.

Nella lista che Balbiano aveva consegnato al suo successore, il viceré Vivalda, vi era, tra i tanti nominativi, quello della vedova di Giacinto Cossu, all’epoca dei fatti già incinta del figlio Giaime.

Sua Altezza Reale Carlo Felice,  che rilevò le funzioni delegate a Cagliari proprio dal Vivalda, osservò curiosamente che le donne non potevano ricoprire impieghi pubblici nell’amministrazione sabauda, per le note carenze e per lo stato di inferiorità intellettiva, che allora ingiustamente si ritenevano connaturate al sesso femminile, deputato esclusivamente al ruolo di moglie e di madre.

 Il suo consigliere e amico Don Giacomo Pes, futuro marchese di Villamarina, saputo che la donna aveva partorito un figlio del cavaliere alla memoria militare Giacinto, suggerì che venisse assunto il figlio al posto del padre.

A Carlo Felice l’idea piacque molto.  Intanto perché il figlio dell’eroe aveva soltanto cinque anni e quindi si procrastinava ancora l’adempimento di quella promessa, che poi era divenuta, nel frattempo, anche un obbligo di legge.

Occorre poi aggiungere che il futuro re Carlo Felice andava sempre più entusiasmandosi di quel popolo laborioso, coraggioso e tenace, anche se chiuso nella sua atavica arretratezza e diffidente per natura.

Quando nel 1806, il re Vittorio Emanuele I, subentrato a suo fratello, sospinto dagli ostili venti di guerra napoleonici, che soffiavano nei suoi territori di terraferma, giunse a Cagliari,  Giaime Cossu aveva compiuto dieci anni e si era distinto dai Padri Scolopi, alle cui sapienti cure pedagogiche  il Villamarina lo aveva indirizzato a spese del demanio, come uno degli scolari più diligenti, intuitivi  e capaci.

Nel 1815, finalmente, insieme alla restaurazione del vecchio ordine europeo, si aprirono per i Sardi le porte della pubblica amministrazione piemontese.

 Il cavaliere Pes di Villamarina, prima che il suo sovrano partisse per Torino, lasciandolo a Cagliari a governare in sua vece, ottenne dal sovrano il permesso di costituire anche all’interno della segreteria di stato viceregia, sotto il personale controllo del titolare della massima carica sarda, una pattuglia segreta con il nome di sottocommissione per i lavori di statistica, sul modello di quella che si era già costituita a Torino presso il Ministero degli Esteri.

 Soltanto pochi decenni dopo, quella istituzione, che praticamente era a tutti gli effetti un servizio di spionaggio e controspionaggio, avrebbe avuto come capo incontrastato il conte di Camillo Benso di Cavour e come operatrici di rilievo perfino delle donne, preferite dal fautore dell’unità italiana, perché capaci, più dei colleghi maschi, di infilarsi nelle alcove degli eminenti personaggi ai quali strappare segreti e promesse di appoggi militari e politici in tutti i campi. Insomma un servizio di intelligence in piena regola.

Giaime Cossu era stato il primo sardo ad essere inviato alla scuola di addestramento che istruiva le future spie del Regno di Sardegna, da sistemare poi in apposite funzioni di copertura nella pubblica amministrazione.

Dopo il severo addestramento triennale il cavaliere Giaime Cossu venne proprio insignito del grado di tenente e pubblico ufficiale da don Giacomo Pes di Villamarina in persona, nel frattempo rientrato a Torino per farsi strada in   una brillante carriera ai massimi livelli governativi.

A sua richiesta, il giovane sardo fu destinato alla segretaria di stato viceregia e, non potendo ricoprire funzioni diplomatiche, gli venne assegnata, come paravento, la funzione di archivista, pur mantenendo nel suo dossier personale, il grado ufficiale di tenente.

Prima di ripartire da Torino per ricongiungersi alla sua attempata madre, di cui costituiva l’unico sostegno economico e psicologico, Giaime si sposò con Angela Petri Raimondi, una quasi coetanea, per metà nizzarda e per l’altra metà corsa, che aveva conosciuto in occasione di una delle feste che si organizzavano negli ambienti del Ministero degli Esteri che lui frequentava a pieno titolo, e di cui si era innamorato, contraccambiato, nel prosieguo del suo soggiorno torinese.

E fu con lei che lasciò Torino per la Sardegna, nell’anno di grazia del Signore 1818.

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I Nuovi Baroni

Capitolo Secondo

«Vostra Eccellenza mi ha fatto chiamare?»

«Sì, certo. Accomodatevi e leggete questo dispaccio riservato appena giunto da Torino».

Non senza emozione il Reggente della Reale Cancelleria Giovanni Maria Meloni si accinse a leggere il dispaccio che il viceré Giuseppe Maria Montiglio di Ottiglio e Villanova gli aveva sottoposto. Non capitava tutti i giorni che il rappresentante del Re in Sardegna gli facesse leggere direttamente la corrispondenza riservata che intercorreva tra il suo ufficio e la Segreteria di Stato per gli Affari Interni di Torino.

«Che ne pensate?» gli chiese il viceré appena ebbe finito di leggere, porgendogli un calice di un liquido ambrato che nel frattempo gli aveva versato.

«Al Re Carlo Alberto!», disse il Luogotenente del Regno facendo tintinnare i bicchieri.

«Al Re, alla Regina e all’erede al trono Vittorio Emanuele» approvò il cavaliere Giovanni Maria Meloni alzandosi in piedi anche lui.

Il viceré fu contento e commosso di questo brindisi augurale. Appena si furono nuovamente accomodati il viceré replicò la sua precedente domanda con un cenno del mento, indirizzato al dispaccio riservato ancora aperto davanti al suo più fido collaboratore, praticamente il numero due dell’amministrazione viceregia piemontese, in pratica quello che deteneva il maggior potere, subito dopo di lui, che però rappresentava Sua Maestà il Re di Sardegna Carlo Alberto.

Giovanni Maria Meloni gustò ancora un sorso di vino Dolcetta prima di rispondere. Nonostante gli avesse fatto provare i vini bianchi più dolci della Sardegna, non era riuscito a staccarlo da quel nettare piemontese che si produceva nei suoi possedimenti di Asti. Convenne mentalmente che quel liquore, rispetto alla malvasia, alla vernaccia e ai moscati sardi, aveva un gusto esotico che lo rendeva, in qualche misura, superiore.

«È una rogna.  Una grossa rogna eccellenza», disse raccogliendo i suoi pensieri. Sapeva infatti che il viceré non lo aveva convocato soltanto per sentire un suo parere, ma voleva confrontarsi con lui per trovare la migliore soluzione al problema.

«Prima di intervenire reputerei opportuno accertarci direttamente in loco della situazione, sia in relazione a come si siano realmente svolti i fatti, sia riguardo all’evoluzione che essi abbiano ingenerato»

«Come si siano svolti i fatti lo abbiamo appreso dal dottor Hernan Cany, il nostro commissario rappresentante».

«Vero. Ma è altrettanto vero che il dottor Cany, come è già a conoscenza di Vostra Eccellenza, è un nostalgico del passato regime e io avrei bisogno, a questo punto, di un resoconto più veritiero di quello che ci ha fatto lui»

«Concordo. Andate pure avanti» disse il viceré in tono rassegnato. In cuor suo maledisse la mala pianta della nostalgia che in quella terra inospitale faceva preferire i sovrani iberici, ormai illegittimi perfino agli occhi dei loro stessi sudditi e nella loro stessa patria, al legittimo sovrano piemontese.

«Io invierei un nostro delegato, seppure in incognito, con l’incarico di relazionare direttamente a noi».

«E se questo delegato ci riferisse che la situazione dell’ordine pubblico è fuori controllo?»

«Allora penso che Vostra Eccellenza dovrebbe mandare immediatamente una Compagnia di Dragoni armata di tutto punto…»

«Non vorrei arrivare a tanto; tanto più che in tal caso mi troverei a sguarnire le nostre truppe di stanza qui a Cagliari»

«Infatti»

«O Signùr, che gran pastiss! Questo è il risultato della politica del doppio passo di Torino!», si lamentò il viceré con un gesto di esasperata impotenza. Nonostante amasse sinceramente l’istituzione monarchica, da buon antibonapartista della prima ora, celava nel fondo del suo animo quella vecchia diffidenza che per lunghi anni aveva albergato nel cuore del vecchio sovrano Carlo Felice nei confronti delle idee liberali del principe di Carignano e del ramo cadetto dei Savoia, che con Carlo Alberto era subentrato nei diritti successori del Regno di Sardegna.

«Perché fasciarci la testa prima di essercela rotta?», interpose il Reggente della Reale Cancelleria.

«In effetti il Segretario di Stato parla di intervenire immediatamente ma non spiega come intervenire. Forse il mio vecchio amico Pes di Villamarina, in nome dei nostri comuni trascorsi militari, ha voluto lasciarmi un ampio margine di autonomia e di manovra»

«Così è sembrato anche a me di capire nella lettura del dispaccio che mi avete sottoposto. Seppure quelle minacce da Vienna e da Madrid non devono essere piaciute a Sua Eccellenza il Segretario di Stato!»

«Com’è la situazione della giurisdizione, all’atto pratico, in quella Villa di Sor?»

«Come nel resto dei feudi. I Baroni continuano ad arrogarsi il diritto di istruire i processi civili e criminali, corrispondendo laute elargizioni all’Ufficiale di Giustizia e ai Maggiori, anche nelle ville viciniori. E ciò nonostante l’Editto di abolizione della giurisdizione feudale da voi emanato, sia stato pubblicato e diffuso a dovere in ogni villa!»

«Se Torino ci avesse fornito i mezzi finanziari avremmo già istituito mandamenti e circondari dappertutto. Invece l’Editto scarica le spese delle nuove istituzioni giudiziali sui Consigli Comunicativi»

«Però questa causa possiamo almeno iscriverla nei nostri registri!», disse il cavalier Giovanni Maria Meloni che non voleva addentrarsi in questioni politiche troppo complesse.

«Ben detto! E chi possiamo mandare come nostro delegato a indagare?»

«Ho l’uomo che fa per noi. Ufficialmente è un archivista della mia segreteria,  ma ha già svolto per noi dei lavori speciali ».

L’ex generale Giuseppe Maria Montiglio annuì in modo quasi impercettibile.

Sapeva bene dell’esistenza di una polizia segreta all’interno dell’organigramma ufficiale della Reale Cancelleria. L’aveva trovata già istituita al suo insediamento e sapeva che tutto era stato fatto con il beneplacito della Segreteria di Stato di Torino.

 Per amore del suo sovrano quello era uno dei tanti bocconi amari che la politica lo obbligava a ingoiare in quei maledetti tempi di liberismo esasperato.

«E come pensate di introdurlo nell’ambiente della Villa senza dar nell’occhio?», chiese il viceré.

«L’attuale Rettore della chiesa di San Biagio di Villa Sor è un cugino di mia moglie e le segue alcuni terreni dei loro avi comuni, ancora a lei intestati. Agli occhi della gente avrebbe come copertura l’incarico di prendere visione dello stato di manutenzione dei possedimenti della cugina del Rettore, notoriamente co-titolare dei terreni da lui posseduto, mentre allo stesso Rettore possiamo far credere che il nostro uomo sia lì per misurare e trarre planimetrie dei terreni a fini pubblici.»

«Mentre in realtà che cosa andrebbe a fare questo nostro uomo nella Villa?», chiese il vecchio militare che non amava i sotterfugi della politica.

«Se Vostra Eccellenza concorda, io lo manderei a indagare sull’assassino del Sostituto Podatario e sulla situazione di conflittualità venutasi a creare tra i vassalli e il feudatario. Come dice sempre Vostra Eccellenza prevenire è meglio che curare, e non vorrei che la situazione degenerasse, come paventato da Torino»

«Per carità! In questo momento una ribellione aperta contro il feudatario, si ritorcerebbe contro il nostro amato sovrano e contro di noi!», esclamò il viceré, spaventato all’idea di doversi trovare a sedare una rivolta.

«Ma quest’uomo infiltrato sarà visto come un alleato degli uomini del feudatario oppure come un partigiano dei vassalli?», chiese subito dopo il viceré.

In qualità di militare che aveva speso quasi interamente la sua vita sui campi di battaglia, nel fondo del suo animo, era incapace di vedere situazioni ambigue, che non fossero la guerra o la pace.

«Deve risultare una persona neutrale, un tecnico agrimensore, un topografo che sia lì a misurare le terre per doveri d’ufficio, magari per quel discorso dell’eversione delle terre feudali o per il calcolo del donativo che in fondo stanno tanto a cuore anche a noi».

«Bene», assentì sospirando il viceré, che aveva tanta voglia di arrendersi a quell’intricato progetto, pur di non restare inerte alle esortazioni giunte da Torino, quanta ne aveva il Reggente di metterlo in esecuzione per i suoi reconditi disegni.

«Non sarebbe male che si iniziasse seriamente una sorta di inventario delle terre coltivabili in quella villa e in tutte le altre ville infeudate dell’isola, suddividendole tra feudali e non feudali, tra comunali e private e così via.»

«Certo, certo. Dirò al nostro uomo di cominciare a impostare il suo lavoro in questo modo, stringendo delle alleanze con le persone giuste. Da solo, senza l’aiuto di persone del luogo, non potrebbe mai svolgere un simile delicato e difficile compito»

«Avete ragione, come sempre. Cosa farei senza di voi che conoscete così bene gli usi e lo stesso modo di pensare della vostra gente?» disse il viceré, che apprezzava veramente quell’uomo, sino a meravigliarsi, a volte, di come fosse possibile che in quella terra, lontana dalla sua patria e per molti versi, perfino ostile, esistessero degli uomini così sinceramente fedeli al suo amato sovrano piemontese.

«Occorre pazientare, Eccellenza. I miei connazionali si appassioneranno, con il tempo, ai nuovi sovrani. La nostra gente è molto, troppo attaccata alle antiche tradizioni e ha paura che i cambiamenti possano peggiorare la loro già misera condizione».

«Bisognerebbe fargli capire due cose: che il nostro sovrano Carlo Alberto li ama davvero e vuole, forse anche troppo, la loro libertà; e che se tutti insieme, riuscissimo a spezzare finalmente il giogo dei tributi e dei retaggi feudali, la loro condizione economica migliorerebbe di sicuro» disse con convinzione l’anziano viceré.

«Se si riuscisse a far penetrare nei loro cuori la nuova cultura e le nuove idee!»

«I feudatari non lo permetteranno mai. Sanno bene che il loro mondo crollerebbe subito sotto il peso della cultura e della coscienza della libertà».

«Forse è stato un errore lasciare al clero l’insegnamento. Se soltanto lo Stato si fosse accollati gli oneri dell’insegnamento elementare, anziché lasciarlo sulle spalle dei Consigli Comunicativi…»

 Giovanni Maria Meloni si pentì subito di aver toccato quel tasto troppo apertamente politico, che criticava una scelta del governo di Torino. Stranamente il viceré non si adombrò, limitandosi a dire: «Non vi preoccupate. È un vecchio pallino del nostro amato sovrano e vedrete che prima o poi riuscirà a introdurre la scuola obbligatoria per tutti a carico dello Stato».

 Il Reggente della Reale Udienza adesso scorse come un’ombra negli occhi del vecchio nobile piemontese. Ma non vi lesse un fastidio per la critica che aveva appena espresso, quanto piuttosto un sentimento di rassegnazione. Ma il suo attaccamento al vecchio mondo, quello antinapoleonico e savoiardo, era così radicato in lui, che forse superava perfino il dispiacere per il suo tempo migliore ormai trascorso.

 Decise di toglierlo dall’imbarazzo ritornando all’argomento principale del loro incontro:

«Se Vostra Eccellenza è d’accordo io manderei lì il nostro uomo immediatamente e in incognito; con le debite istruzioni.»

«Fatelo appena potete e ve ne sarò riconoscente. Attingete pure ai fondi che sapete con la mia autorizzazione personale!», disse il viceré. Un ultimo brindisi tra i due suggellò quella felice conclusione.

I Nuovi Baroni

Capitolo 1

Il vecchio notaio Joseph Nacho Salvador Sales si fermò, non solo per riprendere fiato, ma anche e soprattutto perché, a quel punto, era prevista la risposta dei vassalli e il conseguente   giuramento per conferma dei due consiglieri del Consiglio di Comunicazione, Efisio Blas Vargiu e Francisco Lorenzo Vaquer, in qualità di rappresentanti dei vassalli. 

Soltanto allora avrebbe potuto concludere il rito della presa di possesso del feudo in capo al nuovo marchese. Così aveva fatto egli stesso, venticinque anni prima,  per l’infeudazione del  padre di Don Carlos, Don Arbal e così era stato fatto da tempo immemore, o almeno sino dai tempi in cui, ed erano trascorsi molti secoli, il primo signore degli Alagon era stato infeudato da Ferdinando d’Aragona in quello che allora era soltanto uno spopolato villaggio e adesso contava ben cinque Partiti di ventisette Ville complessive.

Un coro di proteste si levò invece dalla folla presente che il messo comunale era riuscito a suon di tamburo e di corno a radunare nel cortile della Casa Forte, il centro di quel potere feudale da lui decantato a norma di legge.

«Basta con questi antichi vassallaggi!»

«Siamo stanchi di pagare!»

«Non ce la facciamo più»

«La legge è cambiata!»

«Non avete più i titoli per imporci questi odiosi tributi!»

«Evviva Carlo Alberto Re di Sardegna!»

«A morte i baroni e i marchesi austriaci e spagnoli!»

In un crescendo di rabbia e frustrazione adesso il popolo dei vassalli si era sollevato in una voce sola.

«Que pasa?», chiese il Sostituto Podatario Don Josep Mendoza al commissario dell’Udienza Reale Dottor Hernan Cany. Nonostante il potere fosse passato ai Savoia da più di un secolo, certi funzionari, specialmente quelli legati alla nobiltà del passato regime, parlavano tra loro ancora in lingua castigliana.

«No sé», rispose il commissario della Reale Udienza preso di sorpresa. Poi rivolto al notaio, nella lingua sarda che l’uomo stesso aveva usato per farsi intendere dai presenti.

«Cosa sta succedendo signor notaro?»

«I due consiglieri qui presenti mi hanno appena comunicato che i vassalli non intendono promettere obbedienza al nuovo padrone. Tra loro gira la voce che il Re Sardo abbia emanato un editto con il quale avrebbe abolito i diritti del feudo».

Il Sostituto Podatario, che detestava nel profondo del cuore i vassalli sardi, inviperito inoltre per aver dovuto sostituire il titolare all’ultimo momento, si sporse dal ballatoio e con fare minaccioso, stringendo il pugno della mano destra, si mise a inveire nella sua lingua madre, che era quella castigliana, con irripetibili improperi che investivano direttamente le madri innocenti dei vassalli ribelli.

Antoni Pinna, figlio di una popolana e di padre ignoto, ovvero di N.N., come si usava annotare allora nei registri del battesimo in quei casi, che forse aveva persino sangue spagnolo nelle vene e che delle invettive  urlate dal Sostituto Podatario aveva sicuramente afferrato quella che considerò un’offesa e un oltraggio  imperdonabili a sua madre, si fece largo tra la folla dei vassalli, prese di mira l’esagitato Podatario con il suo moschetto ad avancarica e lo centrò in pieno petto, urlando a sua volta: «Bagassa manna mamma tua!».

Forse fu più sorpreso lo stesso Antoni di quel centro fortunoso, anche se la distanza non superava probabilmente i cinquanta metri.

Dopo un attimo di incertezza, allo stupore, frammisto ad orgoglio, per quel centro portentoso, vedendo l’uomo accasciarsi pesantemente tra le braccia dei vicini, subentrarono la coscienza di aver ferito gravemente il rappresentante di un uomo potente, il marchese padrone del feudo, e la paura delle conseguenze. Tanto più che l’Ufficiale di Giustizia e il Maggiore, stringendo ancora tra le braccia il corpo inerte del Podatario supplente, si misero a urlare ai presenti di afferrare l’assassino per assicurarlo alla legge mentre prestavano le prime cure al ferito.

 Antoni si mise a correre come un pazzo.

Attraversata la via reale, si infilò nel Bosco de Is Murtas e lì, nonostante il pronto inseguimento del tenente e di due miliziani presenti al raduno, fece perdere le sue tracce, essendo più giovane e più veloce dei suoi inseguitori.

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LA RESURREZIONE DI GESU’

Giovanni! Pietro! Correte!

Gesù L’han portato via

Dal Sepolcro! Conoscete

Voi due ”  gridava Maria

Di Magdala concitata

dove l’abbian portato?”

Corsero a perdifiato

Per la discesa sterrata

I due interpellati.

Arrivò primo Giovanni,

chè lento era di più anni

Pietro. Ma abbandonati

Erano i sacri teli

Che le membra avean strette

E ‘l sudario qual ne’ cieli

Sospeso, vide, e credette,

anche il discente più acerbo,

dopo l’anziano. E intanto

che Maria in gran pianto

si scioglieva, con in serbo

quelle grandi emozioni

a casa rientravano

i due e capivano

infine le narrazioni

delle Scritture, che Egli

doveva risuscitare

dall’oltretomba. Due begli

angeli a domandare

il perché del suo pianto

a Maria, prona verso

la bara, di lino terso

vestiti apparvero. – “Tanto

io piango perché hanno

portato via il mio Signore

e non ho pace al cuore

– rispose ella con affanno –

 “ al non conoscer neanche

dove lo abbiano  posto”- .

Ciò detto le ciglia stanche

Posò su un uomo discosto

Che era Gesù incognìto.

– “Donna, chi piangi e cerchi?”-

le chiese. Di sottecchi,

credendolo di quel sito

lei, così lo supplicò:

-“ Se Lo hai portato via tu,

il mio Signore Gesù,

dimmelo; io stessa andrò

a prenderLo”. Il Suo rostro

mostrando Egli le disse

-“ Salgo al Padre mio e vostro.

Dillo, che pria che salisse

Gesù ai Suoi fratelli

Per te lo ha inteso dir!”

Dopo aver detto : “Rabbunì!”

Ella andò a dirlo a quelli.

La sera di quello stesso

Giorno, il primo passato

Il sabato, inserrato

Per timore,  il consesso

Dei discepoli stava,

Dei Giudei, allor quando

Gesù si manifestava

A lor così parlando:

“-Pace a voi” E mostrò

le mani e il  costato.

Come il Padre mi ha mandato

Così vi mando”. Alitò

Gesù, quindi  disse ad essi

Gioiosi e stupefatti

-“ A coloro  cui i  peccati

rimetterete, rimessi

saranno. E non rimessi

a quei cui non li avrete

rimessi.” Di ciò messi

li fece. “ E ricevete

ora lo Spirito Santo”.

Ma avvenne che Tommaso

Del fatto non persuaso,

quando i colleghi vanto

menaron d’aver visto

il Signore Gesù, disse:

-“ Non credo che chi già visse,

viva ancor, se il mio dito

non metto e le ferite

dei Suoi chiodi non vedo”.

Dalle cose riferite,

dopo otto giorni, credo,

ricomparve a porte chiuse

Gesù nello stesso luogo

Con l’autore dello sfogo.

A lui le piaghe dischiuse

Mostrò. Ed egli disse: “Mio

Signore Cristo Gesù

Maestro e amico!   Tu

Sei il Signore mio Dio”!.

-“Beato chi avrà fede” –

diss’Ei – “  non avendo visto

e  pur col cuore crede,

chè avrà la vita in Cristo!”

Flying the skies for ever

Who knows why human beings,

since long timepast

Have been dreaming to be able to fly?

The reason might be they always had trust

In God Almighty living in the sky!

And like a deer feeling thirsty and so dry

Longs for its spring to extinguish its fire,

For men to be where He’s supposed to lie

His Creator, is the greatest desire!

Go thus man and fly, higher and higher

Put your country’s flag along the universe

Or simply let some stuff make you a liar

Or dream you’re flying while loving your own nurse!

Only when your body’s time is over

Your soul will be flying the sky forever!

https://poetryandmore-albixforpoetry.blogspot.com/2024/03/echoes-from-sad-soul-8.html