I Nuovi Baroni

Capitolo Quarto

Il giorno dopo, all’alba, Giaime Cossu era già in viaggio. Aveva scelto come accompagnatore un giovane prestante, svelto di coltello e abile cavallerizzo. Il giovane gli era debitore, per averlo tolto dai guai quando lo avevano incriminato per avere accoltellato un uomo che gli contendeva i favori di una popolana, proponendosi di essere un suo protettore, pur non avendo la forza necessaria per proteggerla veramente, almeno non nei confronti di Diego Murenu, più alto di una spanna di quel sedicente protettore, più forte e sicuramente dal carattere più volitivo e deciso.

Per fortuna il suo rivale non era morto e lui si era offerto di pagare le cure per farlo guarire. Diego Murenu dal giorno aveva rigato dritto, affiancando suo padre nell’attività di pescatore; attività che lasciava però volentieri, ogni volta che il suo salvatore, verso il quale provava una profonda gratitudine, scevra però da ogni piaggeria, ne aveva avuto bisogno.

 Tanto più che la retribuzione che gli garantivano quelle episodiche collaborazioni, non facevano certo rimpiangere i magri profitti della pesca in mare.

Lungo la strada, attraversando i campi, Giaime Cossu, seguito a cavallo dal suo fido accompagnatore Diego Murenu, osservò con attenzione i campi di grano, già in gran parte mietuti, e le vigne rigogliose ben curate, che mostravano già i primi tralci ancora acerbi. Si inebriò di quei colori e degli odori che la campagna emanava. I numerosi braccianti addetti ai lavori dei campi raramente sollevavano le schiene ricurve per osservare quei due forestieri. La fatica era più forte della curiosità. Giaime notò tuttavia che erano i padroni, o quelli che dirigevano le attività agricole a rivolgergli un cenno di saluto, dopo averli osservati con quello sguardo di diffidenza e curiosità tipico dei contadini alla vista dei forestieri. In questi casi anche lui si limitava a un fugace cenno di saluto, educato ma non troppo espansivo.

Poco prima di mezzogiorno giunsero a Villa di Sor, alla casa di Don Gavino Palacio, adiacente alla Rettoria di cui il religioso era a capo. Furono introdotti alla sua presenza dal suo campanaro e sagrestano, nonché portinaio e factotum Luisu Caboi.

Don Gavino Palacio era un uomo dal fisico prestante e dal carattere forte. Il capostipite della sua famiglia, di solida origine iberica, era stato un hidalgo di nome Rodrigo, sbarcato in Sardegna al seguito di uno dei tanti viceré spediti da Madrid al tempo della dominazione spagnola, per domare, sottomettere e spremere quel regno arcano, che come altri possedimenti, adornavano la corona del suo sovrano. 

Anche quel regno, più vicino, più piccolo e più povero degli altri   territori lontani, che rappresentavano il mitico “El Dorado” delle Americhe, per meritare un tale elevato onore, aveva il dovere di contribuire fattivamente al sostentamento della corona spagnola, per la gloria superiore dello stesso re, della sua nobiltà, piccola o grande che essa potesse essere, e della religione cattolica.

Don Rodrigo Palacio, cha apparteneva alla più piccola delle classi nobiliari della corona spagnola, all’apice della sua personale carriera, quando ormai, non soltanto la gloria del siglo de oro, ma anche quella più modesta dell’ultimo dei Borbone stava transitando nel crepuscolo della storia, era assurto al grado di Capitano Regio.

 Sarebbe però morto in miseria, più o meno come aveva vissuto sino ad allora, se non avesse avuto la fortuna di sposare la ricca e giovane vedova di un facoltoso notaio di Monastir, un certo Clemente Sanna ch’era riuscito, grazie alla sua prestigiosa professione, ad accrescere in maniera considerevole il patrimonio dei suoi avi.

Con l’aiuto di un bravo avvocato e grazie a una specifica disposizione testamentaria, la bella vedova era riuscita a salvare una fetta consistente del patrimonio del defunto marito dagli assalti famelici dei cugini e dei nipoti.

 E dove non erano riusciti utili i codicilli e le pandette di quell’aggrovigliato e complesso ordinamento giuridico che costituiva l’ossatura dei rapporti economici della società sarda di allora, ci avevano pensato il carisma militare e gli appoggi altolocati che l’hidalgo spagnolo era riuscito a trovarle, in rafforzamento delle sue ragioni ereditarie.

 Dalla coppia erano nati due figli maschi: Vincente e Ferdinando e una femmina di nome Isabela.

  I due figli maschi, in forza delle norme successorie dotali che prevedevano, per mantenere integri i grossi patrimoni terrieri, di liquidare le donne con una dote in danaro contante, onde lasciare così le terre in eredità ai soli figli maschi, avevano liquidato la sorella con una congrua dote.

 Ferdinando, poi, dotato di una maggiore predisposizione agli studi, aveva scelto una carriera alternativa alla gestione delle proprietà familiari ed era stato anche lui liquidato con una sostanziosa somma in danaro sonante.

 Ma quando Vincente era morto senza figli, il patrimonio originario della moglie del capostipite Rodrigo era tornato indietro a don Ferdinando Palacio e, successivamente, ai suoi due figli Carlos e Victorio.

Dei numerosi figli del primo, erano sopravvissuti soltanto Consuelo e Gavino, nati a distanza di quasi vent’anni, che vivevano insieme nel Rettorato Maggiore del marchesato di Villa Sor, mentre del secondo, l’unica figlia era Mercedes, la moglie del Reggente della Cancelleria Reale Giovanni Maria Meloni.

Novecento starelli di terreno fertile, per metà seminativo e per l’altra metà coltivato a ulivi, vigne e frutteto, al confine con la villa di Monastir, erano la parte toccata ai tre cugini di quell’antica ricchezza, entrata nel loro possesso non come proprietà infeudata, ma come attribuzione dominicale che però godeva del privilegio dell’esenzione ecclesiastica.

E questa era la ragione per cui donna Mercedes l’aveva lasciata nel possesso del cugino religioso, accontentandosi di modeste rendite, che certi anni arrivavano in ritardo o arrivavano dimezzate, con il tacito e inespresso accordo che un giorno la proprietà si sarebbe ricomposta in capo a lei per intero.

Tanto più che Giovanni Maria  Meloni, grande esperto di questioni giuridiche, studiando le carte dei possedimenti di sua moglie, aveva intravisto una serie di  clausole oscure che gli avevano suggerito l’opportunità di lasciare la proprietà ancora indivisa, in attesa che l’ordinamento giuridico si proiettasse in una dimensione più liberale, suscettibile di recidere una volta per tutti i legami con quel coacervo aggrovigliato di norme e consuetudini che soffocavano, insieme all’economia della Sardegna, anche i singoli individui che avevano la sventura di trovarsi di fronte a un consesso di giustizia.

A dispetto delle sue sicure origini iberiche, don Gavino Palacio tuttavia, non sembrava parteggiare affatto per i feudatari, connazionali del suo capostipite Rodrigo. Al contrario, le sue simpatie andavano all’altro dei due partiti che all’epoca si fronteggiavano fieramente, quello dei lealisti savoiardi.

Non che don Gavino si sentisse particolarmente trasportato a simpatizzare per il partito dei piemontesi, contro quello degli spagnoli.

 Egli aveva opportunisticamente valutato che la condizione di miseria in cui versavano i vassalli degli antichi feudatari spagnoli, indirettamente si ritorceva contro di lui.

Se  infatti  quegli sventurati si fossero affrancati dagli antichi  balzelli feudali,  la ricchezza delle terre infeudate, anziché prendere il volo verso Vienna e verso Madrid, ad accrescere le casse degli avidi baroni di quegli antichi  imperi ormai al tramonto, sarebbe rimasta in loco e di quella nuova prosperità lui sarebbe stato il primo a usufruirne, grazie alle offerte per i suoi inflessibili tariffari: un tot di lire sarde o piemontesi per il Battesimo, almeno qualche scudo per il matrimonio e molti di più per l’ultimo viaggio, quello più costoso e bisognevole di preci accompagnatorie. 

 Senza contare che tra le terre infeudate ve n’erano non poche che confinavano con le sue proprietà; e una volta riscattate, lui avrebbe potuto ampliare i suoi confini, senza suscitare le proteste di alcuno.

Nell’applicazione del suo tariffario il Rettore Palacio era inflessibile e i suoi fulmini cadevano implacabili su quelli che non provvedevano a sistemare in anticipo e in maniera soddisfacente l’incombenza.

In tali casi, durante l’omelia della cerimonia   matrimoniale poteva capitare ai malcapitati sposi, ch’egli citasse la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, ai versetti 25-31 del Capitolo Settimo, rimarcando con ferace precisione, il riferimento alle tribolazioni della vita matrimoniale e la volatilità dei suoi piaceri.

E se fossero appartenuti alla classe prima, quella dei Printzipales, o anche alla seconda, quella dei Mezzani (per quelli della terza classe non c’era alcun pericolo, perché don Gavino Palacio le cerimonie le passava al suo vicario, adducendo improrogabili e insormontabili impegni), allora aveva pronte le ammonizioni contenute nei versetti da 23 a 26  del Capitolo Sesto del Vangelo di  San Luca, per avvertirli sulla perniciosità della loro ricchezza, che si poteva scansare, insieme al fuoco delle pene eterne, con congrue donazioni agli uomini di chiesa come lui.

Insomma don Gavino Palacio non brillava certo per le sue doti spirituali, anche se all’età di cinquantacinque anni, sembrava essersi avviato a una savia vecchiaia e a una gestione, se non altro, ordinata della sua Rettoria. E questo grazie anche a sua sorella Consuelo, la vera, autentica anima spirituale della famiglia.

Ma l’occhio materiale di don Gavino continuava a pungere. Lo stesso occhio che si puntò con sospetto sopra Giaime Cossu e sopra il suo accompagnatore, quella mattina.

«Ah, dunque è mia cugina Mercedes che vi manda? E per che cosa di specifico?», disse dopo aver letto la lettera di presentazione che Giaime gli aveva consegnato, dando così a intendere di non accontentarsi di quella spiegazione così vaga e generica. Il suo animo sospettoso era esacerbato dal pericolo che quel messo potesse ostacolare il suo godimento indisturbato delle comuni proprietà terriere.

«Donna Mercedes mi ha raccomandato di porgervi anche questi, insieme alle mie riverenze e ai suoi saluti», disse per tutta risposta il messo cagliaritano consegnando al prelato il più pingue dei due sacchetti, quello contenente trenta scudi d’argento.

Il tintinnio del contenuto del sacchetto di monete fece cambiare atteggiamento al prelato, facendolo sorvolare sul fatto che si sarebbe aspettato almeno un congruo preavviso per quell’ospite inatteso e perfino indesiderato. Se sua cugina gli mandava dei danari voleva dire che non se ne aspettava da lui. A maggior ragione, poiché si sentiva in colpa per non averle mandato alcuna rendita nel corso dell’anno già avanzato.

«Questi scudi d’argento ci fanno davvero comodo», disse intascando la bella somma. Tanto più che quest’anno i nostri terreni osservano l’anno paberile, come nostra cugina sa per certo».  Don Gavino tacque la circostanza che era soltanto la metà della proprietà comune ad essere soggetto all’anno di quiescenza che,  per antica consuetudine,  si alternava ai due anni in cui venivano seminati i cereali e che l’altra metà aveva dato un’abbondanza di frutta mai vista prima; e comunque anche quella metà, nell’anno di riposo, veniva data in affitto ai pastori che non potevano mancare di compensare il proprietario riconosciuto con ricche prebende, soprattutto in materia prima; il che significava latte, formaggi e carne di pecora e di mucca assicurata per tutto l’anno, giorni feriali e feste comandate incluse.

«Ma prego, entrate cavaliere. Adesso farò sistemare il vostro scudiero e i vostri animali negli alloggi adiacenti alla stalla mentre vi introduco alla padrona di casa, mia sorella Consuelo, che sarà ben lieta di conoscere l’inviato della nostra amata cugina Mercedes».

Giaime Cossu ebbe un’accoglienza calorosa da parte della sorella del Rettore. Tanto le sembrò gentile e ospitale, quanto il fratello gli era parso arcigno, sospettoso e scorbutico. Donna Consuelo era molto avanti negli anni, ma nonostante contasse già settantacinque anni, appariva ancora vigorosa sia nei movimenti che nella favella; serbava nei lineamenti del viso, nonostante i segni dell’età avanzata, un’antica bellezza, di cui si poteva scorgere ancora qualche riflesso, nel bagliore dei suoi occhi celesti. Al contrario di suo fratello, e a dispetto della sua vecchiaia, sembrava contare su una dentatura quasi perfetta, mentre don Gavino, come aveva denotato il suo pestifero alito, che Giaime suo malgrado aveva dovuto sorbirsi mentre quello, all’inizio, lo investiva dei suoi istintivi e alitosi sospetti, doveva fruire già di qualche protesi, come si notava anche dalle sue difficoltà nel parlare.

«Venite che vi mostro la vostra stanza. Vi manderò poi su la vostra attrezzatura con dell’acqua per rinfrescarvi e vi aspettiamo dabbasso per il pranzo. Così potremo parlare di nostra cugina; e anche di voi se vi farà piacere».

«Grazie donna Consuelo, ma di me non c’è un granché dire», si schermì cortesemente il sedicente inviato di donna Mercedes Palacio, che non voleva però sembrare scontroso. «Scusate ma i miei strumenti sono troppo preziosi e delicati e vanno maneggiati con cura sapiente; sapete, sono strumenti di precisione» aggiunse caricandosi il cannocchiale e il celerimetro, con il resto della copiosa documentazione che si era portato appresso da Cagliari.

«Non vi preoccupate, non ci mancheranno certo gli argomenti di discussione. Avrete saputo sicuramente dell’uccisione del Sostituto Podatario del marchese Da Silva?»

Il messo del Reggente cercò di nascondere il suo vivo interesse. Ma ci pensò lo stesso don Gavino a distogliere l’attenzione della sorella. «Non poteva ammazzare qualcun altro quel benedetto Antoni Pinna? Avevo già concordato con la buonanima di don Josep Mendoza un compenso di sette scudi d’argento per la cerimonia religiosa di infeudamento! E i miei scudi d’argento hanno preso il volo con quel disgraziato!»

«Don Gavino!», lo rimproverò bonariamente donna Consuelo. Era l’unica persona al mondo capace di fare un rimprovero a quel caratteraccio terribile che neanche i diversi vescovi che si erano avvicendati in diocesi erano riusciti a dominare.

«Certo, certo, avete ragione! Réquiem aetérnam dona eis, Dómine», disse il canonico con un gesto appropriato della mano destra.

«Et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace», disse donna Consuelo segnandosi devotamente.

«Amen» concluse Giaime imboccando le scale appresso alla sua ospite.

«Io vado a controllare che tutte le entrate siano chiuse per bene. Di questi tempi non si sa mai».

«Ci vediamo a pranzo» gli disse la sorella con un sorriso per farsi perdonare il rimprovero di prima.

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I Nuovi Baroni – 3

Capitolo Terzo

«Eccovi trenta scudi per il canonico maggiore e altri venti per voi. Con i primi predisporrete l’animo di quel vecchio taccagno in sottana, alla migliore ospitalità nei confronti vostri, mentre coi secondi gestirete il vostro viaggio e il vostro soggiorno nella Villa, procurando di aprire la borsa per pagare le informazioni più corrette da raccogliere, vagliare e trasmettere direttamente a me. Avete delle domande? Pensate di avere bene inteso i vostri compiti?»

Giaime Cossu intascò le due borse, riponendole al sicuro in una tasca interna della sua giacca.

«Sono un poco in ansia per questi preziosi strumenti che mi state assegnando. Non sono neppure tanto sicuro di saperli utilizzare».

«Non fate il modesto. Non avrete fatto misurazioni ai corsi della Scuola Superiore di Statistica?»

«Sì, forse, ma son passati troppi anni per ricordare. E comunque si sarà trattato più che altro di misurazioni finalizzate ad estrapolare delle grandezze come esercizio teorico».

«E che problema c’è? Adesso passerete alla pratica sul campo».

«Ma è la proiezione cartografica a preoccuparmi. Come riporterò le mie misurazioni angolari sulla carta?»

«È più semplice di quanto non sembri. Intanto portatevi appresso queste vecchie planimetrie dell’Archivio Reale: sono state realizzate dai censori agrari e abbastanza fedelmente riportano quei terreni. Poi chiedete in giro i nomi dei vari appezzamenti e riportateli sulla carta insieme a delle misurazioni e ai rilievi angolari. Se qualcuno controllasse per errore o per malizia le vostre carte, troverebbe che avete comunque tracciato delle mappe. D’altronde chi sarebbe in grado di smentirvi nell’uso degli strumenti che vi state portando appresso? Volete scommettere che in Villa Sor non c’è una sola persona capace di dare un nome a questi strumenti?»

«Quindi, riepilogando, cosa mi state consegnando da portarmi appresso?», chiese Giaime Cossu, convinto dalle razionali argomentazioni del suo superiore.

«Un compasso di proporzione tascabile, un cannocchiale Semitecolo e un celerimetro di Porro completo di custodia in legno».

«Bene», disse l’inviato prendendo in consegna la strumentazione scientifica che gli avrebbe garantito una copertura per le sue indagini segrete.

«Prendete anche questi altri documenti, una fedele riproduzione della Carta Manoscritta di Domenico Colombino e la “Carte Generale du theatre de la guerre en Italie” redatta dal topografo di Napoleone, con la rete stradale sarda. È una piccola biblioteca itinerante con la quale potrete dimostrare che state facendo sul serio il vostro lavoro».

«Quanto tempo dovrò stare in Villa?», disse l’uomo ricevendo il materiale cartaceo.

«Dipende. Ufficialmente il vostro lavoro non è certo semplice. Vi manderò io disposizioni, se necessario, in risposta a quanto mi farete sapere della situazione. Vi raccomando ancora discrezione. E non esponetevi ad alcun pericolo. Anzi, se voi vedeste dei pericoli per la vostra incolumità, tornate subito in città ad avvertirmi. Le ultime notizie giunte dalla Villa non sono state certo tranquillizzanti».

«Ho capito».

«Un’ultima cosa. Questa è una lettera di mia moglie per il Rettore suo cugino. Ditegli che è riservata. Tanto sono sicuro che, anche se non sarà lui il primo a spiattellarne il contenuto, qualcuno la troverà in giro per la casa e la leggerà a beneficio degli altri che vorranno sapere. Rafforzate la vostra copertura di sovrintendente e curatore dei beni della sua amata cugina. E non temete alcunché dal canonico Palacio: quando capirà che non siete lì per chiedergli soldi, anzi gliene portate in aggiunta a quelli che già dovrebbe versare alla cugina, vi accoglierà con buon garbo per tutto il tempo necessario».

«D’accordo», disse Giaime Cossu con un sottile sorriso d’intesa intascando anche la lettera che il suo superiore gli porgeva.

«Quando pensate di partire?»

«Domani all’alba».

«Bene. Appena avrete delle novità di rilievo, redigete il primo dispaccio e mandatemelo con il vostro servitore. Fatelo viaggiare presto e per i sentieri più sicuri.»

«Certamente. Volete che vi scriva in linguaggio criptato?»

«No, meglio di no. Indirizzate la lettera alla Reale Cancelleria ma con il nominativo della vostra mandante di copertura».

«Donna Mercedes Palacio?»

«Sì, certo. Scrivete rivolgendovi a lei e utilizzate magari delle metafore oppure delle perifrasi. Giusto in caso intercettino le missive. Anche se l’utilizzo del corriere personale dovrebbe rendere più difficile l’intercettazione».

«D’accordo».

«Come viaggerete?»

«A cavallo. Meglio evitare la carrozza. Attira l’attenzione dei briganti di strada e poi si noterebbe troppo all’arrivo; e io voglio arrivare quanto più inosservato posso».

«Bravo. Ben detto», approvò il Cancelliere Reale. I soldi per addestrare quell’uomo erano stati spesi bene. Dai suoi istruttori torinesi aveva imparato bene l’arte di muoversi senza troppo scoprirsi, di osservare senza essere osservato, di cogliere le cose più importanti per riferirle in sintesi a chi di dovere.

«Allora buon viaggio a voi, maggiore. E tenetemi informato più che potete» disse il Reggente della Reale Cancelleria stringendo la mano dell’uomo. L’inviato gli sorrise senza dire niente altro.

Nonostante fosse un suo superiore, Giovanni Maria Meloni provava un grande rispetto per quell’uomo. Non tanto per quei pochi anni che aveva in più di lui, che non potevano certo mettere in soggezione l’uomo più potente del Regno di Sardegna, dopo il viceré, ma piuttosto per i suoi trascorsi personali e per la tradizione familiare che accompagnavano il suo stato di servizio. 

Giaime Cossu era un uomo di statura media, dal fisico asciutto, che dimostrava meno dei suoi quarantaquattro anni. Il titolo di cavaliere lo aveva ereditato dal padre Giacinto, morto da eroe durante la cruenta battaglia con la quale i volontari Sardi, accorsi alla chiamata alle armi del viceré Balbiano, respinsero i quattromila soldati Francesi sbarcati nell’isola nel gennaio 1794.

Sulle ali di questa eclatante vittoria sui Francesi, i politici di Torino, si decisero finalmente ad accogliere una delle più annose richieste dei Sardi, sostenute invero da più di un predecessore di Balbiano: quella di attribuire ai nativi isolani tutti gli impieghi pubblici, escluso quello del sostituto del Re. Si decise così di cominciare ad assumere nei ranghi della pubblica amministrazione quei Sardi che si fossero distinti nella battaglia di Quartu Sant’Elena contro i Francesi, attribuendogli le mansioni più confacenti ai loro titoli di studio e alle esperienze professionali pregresse.

Nella lista che Balbiano aveva consegnato al suo successore, il viceré Vivalda, vi era, tra i tanti nominativi, quello della vedova di Giacinto Cossu, all’epoca dei fatti già incinta del figlio Giaime.

Sua Altezza Reale Carlo Felice,  che rilevò le funzioni delegate a Cagliari proprio dal Vivalda, osservò curiosamente che le donne non potevano ricoprire impieghi pubblici nell’amministrazione sabauda, per le note carenze e per lo stato di inferiorità intellettiva, che allora ingiustamente si ritenevano connaturate al sesso femminile, deputato esclusivamente al ruolo di moglie e di madre.

 Il suo consigliere e amico Don Giacomo Pes, futuro marchese di Villamarina, saputo che la donna aveva partorito un figlio del cavaliere alla memoria militare Giacinto, suggerì che venisse assunto il figlio al posto del padre.

A Carlo Felice l’idea piacque molto.  Intanto perché il figlio dell’eroe aveva soltanto cinque anni e quindi si procrastinava ancora l’adempimento di quella promessa, che poi era divenuta, nel frattempo, anche un obbligo di legge.

Occorre poi aggiungere che il futuro re Carlo Felice andava sempre più entusiasmandosi di quel popolo laborioso, coraggioso e tenace, anche se chiuso nella sua atavica arretratezza e diffidente per natura.

Quando nel 1806, il re Vittorio Emanuele I, subentrato a suo fratello, sospinto dagli ostili venti di guerra napoleonici, che soffiavano nei suoi territori di terraferma, giunse a Cagliari,  Giaime Cossu aveva compiuto dieci anni e si era distinto dai Padri Scolopi, alle cui sapienti cure pedagogiche  il Villamarina lo aveva indirizzato a spese del demanio, come uno degli scolari più diligenti, intuitivi  e capaci.

Nel 1815, finalmente, insieme alla restaurazione del vecchio ordine europeo, si aprirono per i Sardi le porte della pubblica amministrazione piemontese.

 Il cavaliere Pes di Villamarina, prima che il suo sovrano partisse per Torino, lasciandolo a Cagliari a governare in sua vece, ottenne dal sovrano il permesso di costituire anche all’interno della segreteria di stato viceregia, sotto il personale controllo del titolare della massima carica sarda, una pattuglia segreta con il nome di sottocommissione per i lavori di statistica, sul modello di quella che si era già costituita a Torino presso il Ministero degli Esteri.

 Soltanto pochi decenni dopo, quella istituzione, che praticamente era a tutti gli effetti un servizio di spionaggio e controspionaggio, avrebbe avuto come capo incontrastato il conte di Camillo Benso di Cavour e come operatrici di rilievo perfino delle donne, preferite dal fautore dell’unità italiana, perché capaci, più dei colleghi maschi, di infilarsi nelle alcove degli eminenti personaggi ai quali strappare segreti e promesse di appoggi militari e politici in tutti i campi. Insomma un servizio di intelligence in piena regola.

Giaime Cossu era stato il primo sardo ad essere inviato alla scuola di addestramento che istruiva le future spie del Regno di Sardegna, da sistemare poi in apposite funzioni di copertura nella pubblica amministrazione.

Dopo il severo addestramento triennale il cavaliere Giaime Cossu venne proprio insignito del grado di tenente e pubblico ufficiale da don Giacomo Pes di Villamarina in persona, nel frattempo rientrato a Torino per farsi strada in   una brillante carriera ai massimi livelli governativi.

A sua richiesta, il giovane sardo fu destinato alla segretaria di stato viceregia e, non potendo ricoprire funzioni diplomatiche, gli venne assegnata, come paravento, la funzione di archivista, pur mantenendo nel suo dossier personale, il grado ufficiale di tenente.

Prima di ripartire da Torino per ricongiungersi alla sua attempata madre, di cui costituiva l’unico sostegno economico e psicologico, Giaime si sposò con Angela Petri Raimondi, una quasi coetanea, per metà nizzarda e per l’altra metà corsa, che aveva conosciuto in occasione di una delle feste che si organizzavano negli ambienti del Ministero degli Esteri che lui frequentava a pieno titolo, e di cui si era innamorato, contraccambiato, nel prosieguo del suo soggiorno torinese.

E fu con lei che lasciò Torino per la Sardegna, nell’anno di grazia del Signore 1818.

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I Nuovi Baroni

Capitolo Secondo

«Vostra Eccellenza mi ha fatto chiamare?»

«Sì, certo. Accomodatevi e leggete questo dispaccio riservato appena giunto da Torino».

Non senza emozione il Reggente della Reale Cancelleria Giovanni Maria Meloni si accinse a leggere il dispaccio che il viceré Giuseppe Maria Montiglio di Ottiglio e Villanova gli aveva sottoposto. Non capitava tutti i giorni che il rappresentante del Re in Sardegna gli facesse leggere direttamente la corrispondenza riservata che intercorreva tra il suo ufficio e la Segreteria di Stato per gli Affari Interni di Torino.

«Che ne pensate?» gli chiese il viceré appena ebbe finito di leggere, porgendogli un calice di un liquido ambrato che nel frattempo gli aveva versato.

«Al Re Carlo Alberto!», disse il Luogotenente del Regno facendo tintinnare i bicchieri.

«Al Re, alla Regina e all’erede al trono Vittorio Emanuele» approvò il cavaliere Giovanni Maria Meloni alzandosi in piedi anche lui.

Il viceré fu contento e commosso di questo brindisi augurale. Appena si furono nuovamente accomodati il viceré replicò la sua precedente domanda con un cenno del mento, indirizzato al dispaccio riservato ancora aperto davanti al suo più fido collaboratore, praticamente il numero due dell’amministrazione viceregia piemontese, in pratica quello che deteneva il maggior potere, subito dopo di lui, che però rappresentava Sua Maestà il Re di Sardegna Carlo Alberto.

Giovanni Maria Meloni gustò ancora un sorso di vino Dolcetta prima di rispondere. Nonostante gli avesse fatto provare i vini bianchi più dolci della Sardegna, non era riuscito a staccarlo da quel nettare piemontese che si produceva nei suoi possedimenti di Asti. Convenne mentalmente che quel liquore, rispetto alla malvasia, alla vernaccia e ai moscati sardi, aveva un gusto esotico che lo rendeva, in qualche misura, superiore.

«È una rogna.  Una grossa rogna eccellenza», disse raccogliendo i suoi pensieri. Sapeva infatti che il viceré non lo aveva convocato soltanto per sentire un suo parere, ma voleva confrontarsi con lui per trovare la migliore soluzione al problema.

«Prima di intervenire reputerei opportuno accertarci direttamente in loco della situazione, sia in relazione a come si siano realmente svolti i fatti, sia riguardo all’evoluzione che essi abbiano ingenerato»

«Come si siano svolti i fatti lo abbiamo appreso dal dottor Hernan Cany, il nostro commissario rappresentante».

«Vero. Ma è altrettanto vero che il dottor Cany, come è già a conoscenza di Vostra Eccellenza, è un nostalgico del passato regime e io avrei bisogno, a questo punto, di un resoconto più veritiero di quello che ci ha fatto lui»

«Concordo. Andate pure avanti» disse il viceré in tono rassegnato. In cuor suo maledisse la mala pianta della nostalgia che in quella terra inospitale faceva preferire i sovrani iberici, ormai illegittimi perfino agli occhi dei loro stessi sudditi e nella loro stessa patria, al legittimo sovrano piemontese.

«Io invierei un nostro delegato, seppure in incognito, con l’incarico di relazionare direttamente a noi».

«E se questo delegato ci riferisse che la situazione dell’ordine pubblico è fuori controllo?»

«Allora penso che Vostra Eccellenza dovrebbe mandare immediatamente una Compagnia di Dragoni armata di tutto punto…»

«Non vorrei arrivare a tanto; tanto più che in tal caso mi troverei a sguarnire le nostre truppe di stanza qui a Cagliari»

«Infatti»

«O Signùr, che gran pastiss! Questo è il risultato della politica del doppio passo di Torino!», si lamentò il viceré con un gesto di esasperata impotenza. Nonostante amasse sinceramente l’istituzione monarchica, da buon antibonapartista della prima ora, celava nel fondo del suo animo quella vecchia diffidenza che per lunghi anni aveva albergato nel cuore del vecchio sovrano Carlo Felice nei confronti delle idee liberali del principe di Carignano e del ramo cadetto dei Savoia, che con Carlo Alberto era subentrato nei diritti successori del Regno di Sardegna.

«Perché fasciarci la testa prima di essercela rotta?», interpose il Reggente della Reale Cancelleria.

«In effetti il Segretario di Stato parla di intervenire immediatamente ma non spiega come intervenire. Forse il mio vecchio amico Pes di Villamarina, in nome dei nostri comuni trascorsi militari, ha voluto lasciarmi un ampio margine di autonomia e di manovra»

«Così è sembrato anche a me di capire nella lettura del dispaccio che mi avete sottoposto. Seppure quelle minacce da Vienna e da Madrid non devono essere piaciute a Sua Eccellenza il Segretario di Stato!»

«Com’è la situazione della giurisdizione, all’atto pratico, in quella Villa di Sor?»

«Come nel resto dei feudi. I Baroni continuano ad arrogarsi il diritto di istruire i processi civili e criminali, corrispondendo laute elargizioni all’Ufficiale di Giustizia e ai Maggiori, anche nelle ville viciniori. E ciò nonostante l’Editto di abolizione della giurisdizione feudale da voi emanato, sia stato pubblicato e diffuso a dovere in ogni villa!»

«Se Torino ci avesse fornito i mezzi finanziari avremmo già istituito mandamenti e circondari dappertutto. Invece l’Editto scarica le spese delle nuove istituzioni giudiziali sui Consigli Comunicativi»

«Però questa causa possiamo almeno iscriverla nei nostri registri!», disse il cavalier Giovanni Maria Meloni che non voleva addentrarsi in questioni politiche troppo complesse.

«Ben detto! E chi possiamo mandare come nostro delegato a indagare?»

«Ho l’uomo che fa per noi. Ufficialmente è un archivista della mia segreteria,  ma ha già svolto per noi dei lavori speciali ».

L’ex generale Giuseppe Maria Montiglio annuì in modo quasi impercettibile.

Sapeva bene dell’esistenza di una polizia segreta all’interno dell’organigramma ufficiale della Reale Cancelleria. L’aveva trovata già istituita al suo insediamento e sapeva che tutto era stato fatto con il beneplacito della Segreteria di Stato di Torino.

 Per amore del suo sovrano quello era uno dei tanti bocconi amari che la politica lo obbligava a ingoiare in quei maledetti tempi di liberismo esasperato.

«E come pensate di introdurlo nell’ambiente della Villa senza dar nell’occhio?», chiese il viceré.

«L’attuale Rettore della chiesa di San Biagio di Villa Sor è un cugino di mia moglie e le segue alcuni terreni dei loro avi comuni, ancora a lei intestati. Agli occhi della gente avrebbe come copertura l’incarico di prendere visione dello stato di manutenzione dei possedimenti della cugina del Rettore, notoriamente co-titolare dei terreni da lui posseduto, mentre allo stesso Rettore possiamo far credere che il nostro uomo sia lì per misurare e trarre planimetrie dei terreni a fini pubblici.»

«Mentre in realtà che cosa andrebbe a fare questo nostro uomo nella Villa?», chiese il vecchio militare che non amava i sotterfugi della politica.

«Se Vostra Eccellenza concorda, io lo manderei a indagare sull’assassino del Sostituto Podatario e sulla situazione di conflittualità venutasi a creare tra i vassalli e il feudatario. Come dice sempre Vostra Eccellenza prevenire è meglio che curare, e non vorrei che la situazione degenerasse, come paventato da Torino»

«Per carità! In questo momento una ribellione aperta contro il feudatario, si ritorcerebbe contro il nostro amato sovrano e contro di noi!», esclamò il viceré, spaventato all’idea di doversi trovare a sedare una rivolta.

«Ma quest’uomo infiltrato sarà visto come un alleato degli uomini del feudatario oppure come un partigiano dei vassalli?», chiese subito dopo il viceré.

In qualità di militare che aveva speso quasi interamente la sua vita sui campi di battaglia, nel fondo del suo animo, era incapace di vedere situazioni ambigue, che non fossero la guerra o la pace.

«Deve risultare una persona neutrale, un tecnico agrimensore, un topografo che sia lì a misurare le terre per doveri d’ufficio, magari per quel discorso dell’eversione delle terre feudali o per il calcolo del donativo che in fondo stanno tanto a cuore anche a noi».

«Bene», assentì sospirando il viceré, che aveva tanta voglia di arrendersi a quell’intricato progetto, pur di non restare inerte alle esortazioni giunte da Torino, quanta ne aveva il Reggente di metterlo in esecuzione per i suoi reconditi disegni.

«Non sarebbe male che si iniziasse seriamente una sorta di inventario delle terre coltivabili in quella villa e in tutte le altre ville infeudate dell’isola, suddividendole tra feudali e non feudali, tra comunali e private e così via.»

«Certo, certo. Dirò al nostro uomo di cominciare a impostare il suo lavoro in questo modo, stringendo delle alleanze con le persone giuste. Da solo, senza l’aiuto di persone del luogo, non potrebbe mai svolgere un simile delicato e difficile compito»

«Avete ragione, come sempre. Cosa farei senza di voi che conoscete così bene gli usi e lo stesso modo di pensare della vostra gente?» disse il viceré, che apprezzava veramente quell’uomo, sino a meravigliarsi, a volte, di come fosse possibile che in quella terra, lontana dalla sua patria e per molti versi, perfino ostile, esistessero degli uomini così sinceramente fedeli al suo amato sovrano piemontese.

«Occorre pazientare, Eccellenza. I miei connazionali si appassioneranno, con il tempo, ai nuovi sovrani. La nostra gente è molto, troppo attaccata alle antiche tradizioni e ha paura che i cambiamenti possano peggiorare la loro già misera condizione».

«Bisognerebbe fargli capire due cose: che il nostro sovrano Carlo Alberto li ama davvero e vuole, forse anche troppo, la loro libertà; e che se tutti insieme, riuscissimo a spezzare finalmente il giogo dei tributi e dei retaggi feudali, la loro condizione economica migliorerebbe di sicuro» disse con convinzione l’anziano viceré.

«Se si riuscisse a far penetrare nei loro cuori la nuova cultura e le nuove idee!»

«I feudatari non lo permetteranno mai. Sanno bene che il loro mondo crollerebbe subito sotto il peso della cultura e della coscienza della libertà».

«Forse è stato un errore lasciare al clero l’insegnamento. Se soltanto lo Stato si fosse accollati gli oneri dell’insegnamento elementare, anziché lasciarlo sulle spalle dei Consigli Comunicativi…»

 Giovanni Maria Meloni si pentì subito di aver toccato quel tasto troppo apertamente politico, che criticava una scelta del governo di Torino. Stranamente il viceré non si adombrò, limitandosi a dire: «Non vi preoccupate. È un vecchio pallino del nostro amato sovrano e vedrete che prima o poi riuscirà a introdurre la scuola obbligatoria per tutti a carico dello Stato».

 Il Reggente della Reale Udienza adesso scorse come un’ombra negli occhi del vecchio nobile piemontese. Ma non vi lesse un fastidio per la critica che aveva appena espresso, quanto piuttosto un sentimento di rassegnazione. Ma il suo attaccamento al vecchio mondo, quello antinapoleonico e savoiardo, era così radicato in lui, che forse superava perfino il dispiacere per il suo tempo migliore ormai trascorso.

 Decise di toglierlo dall’imbarazzo ritornando all’argomento principale del loro incontro:

«Se Vostra Eccellenza è d’accordo io manderei lì il nostro uomo immediatamente e in incognito; con le debite istruzioni.»

«Fatelo appena potete e ve ne sarò riconoscente. Attingete pure ai fondi che sapete con la mia autorizzazione personale!», disse il viceré. Un ultimo brindisi tra i due suggellò quella felice conclusione.

I Nuovi Baroni

Capitolo 1

Il vecchio notaio Joseph Nacho Salvador Sales si fermò, non solo per riprendere fiato, ma anche e soprattutto perché, a quel punto, era prevista la risposta dei vassalli e il conseguente   giuramento per conferma dei due consiglieri del Consiglio di Comunicazione, Efisio Blas Vargiu e Francisco Lorenzo Vaquer, in qualità di rappresentanti dei vassalli. 

Soltanto allora avrebbe potuto concludere il rito della presa di possesso del feudo in capo al nuovo marchese. Così aveva fatto egli stesso, venticinque anni prima,  per l’infeudazione del  padre di Don Carlos, Don Arbal e così era stato fatto da tempo immemore, o almeno sino dai tempi in cui, ed erano trascorsi molti secoli, il primo signore degli Alagon era stato infeudato da Ferdinando d’Aragona in quello che allora era soltanto uno spopolato villaggio e adesso contava ben cinque Partiti di ventisette Ville complessive.

Un coro di proteste si levò invece dalla folla presente che il messo comunale era riuscito a suon di tamburo e di corno a radunare nel cortile della Casa Forte, il centro di quel potere feudale da lui decantato a norma di legge.

«Basta con questi antichi vassallaggi!»

«Siamo stanchi di pagare!»

«Non ce la facciamo più»

«La legge è cambiata!»

«Non avete più i titoli per imporci questi odiosi tributi!»

«Evviva Carlo Alberto Re di Sardegna!»

«A morte i baroni e i marchesi austriaci e spagnoli!»

In un crescendo di rabbia e frustrazione adesso il popolo dei vassalli si era sollevato in una voce sola.

«Que pasa?», chiese il Sostituto Podatario Don Josep Mendoza al commissario dell’Udienza Reale Dottor Hernan Cany. Nonostante il potere fosse passato ai Savoia da più di un secolo, certi funzionari, specialmente quelli legati alla nobiltà del passato regime, parlavano tra loro ancora in lingua castigliana.

«No sé», rispose il commissario della Reale Udienza preso di sorpresa. Poi rivolto al notaio, nella lingua sarda che l’uomo stesso aveva usato per farsi intendere dai presenti.

«Cosa sta succedendo signor notaro?»

«I due consiglieri qui presenti mi hanno appena comunicato che i vassalli non intendono promettere obbedienza al nuovo padrone. Tra loro gira la voce che il Re Sardo abbia emanato un editto con il quale avrebbe abolito i diritti del feudo».

Il Sostituto Podatario, che detestava nel profondo del cuore i vassalli sardi, inviperito inoltre per aver dovuto sostituire il titolare all’ultimo momento, si sporse dal ballatoio e con fare minaccioso, stringendo il pugno della mano destra, si mise a inveire nella sua lingua madre, che era quella castigliana, con irripetibili improperi che investivano direttamente le madri innocenti dei vassalli ribelli.

Antoni Pinna, figlio di una popolana e di padre ignoto, ovvero di N.N., come si usava annotare allora nei registri del battesimo in quei casi, che forse aveva persino sangue spagnolo nelle vene e che delle invettive  urlate dal Sostituto Podatario aveva sicuramente afferrato quella che considerò un’offesa e un oltraggio  imperdonabili a sua madre, si fece largo tra la folla dei vassalli, prese di mira l’esagitato Podatario con il suo moschetto ad avancarica e lo centrò in pieno petto, urlando a sua volta: «Bagassa manna mamma tua!».

Forse fu più sorpreso lo stesso Antoni di quel centro fortunoso, anche se la distanza non superava probabilmente i cinquanta metri.

Dopo un attimo di incertezza, allo stupore, frammisto ad orgoglio, per quel centro portentoso, vedendo l’uomo accasciarsi pesantemente tra le braccia dei vicini, subentrarono la coscienza di aver ferito gravemente il rappresentante di un uomo potente, il marchese padrone del feudo, e la paura delle conseguenze. Tanto più che l’Ufficiale di Giustizia e il Maggiore, stringendo ancora tra le braccia il corpo inerte del Podatario supplente, si misero a urlare ai presenti di afferrare l’assassino per assicurarlo alla legge mentre prestavano le prime cure al ferito.

 Antoni si mise a correre come un pazzo.

Attraversata la via reale, si infilò nel Bosco de Is Murtas e lì, nonostante il pronto inseguimento del tenente e di due miliziani presenti al raduno, fece perdere le sue tracce, essendo più giovane e più veloce dei suoi inseguitori.

https://www.ibs.it/nuovi-baroni-agonia-del-potere-libro-ignazio-salvatore-basile/e/9788833436548

Memorie di scuola

copertina memorie

In quell’anno scolastico 1970-1971 ero approdato alla terza classe dell’istituto Tecnico per Ragionieri “Leonardo da Vinci” di Cagliari.

Proprio in quell’anno mi ero accorto di avere sbagliato scuola: la Ragioneria e la Tecnica Commerciale, materie di indirizzo, mi annoiavano a morte, mentre studiavo sempre più volentieri l’italiano, la storia e le lingue straniere, il diritto e l’economia; avrei studiato anche le materie professionali, almeno per arrivare alla sufficienza.

D’altronde non è che i professori potessero ammazzarci di studio. Qualcuno l’avrebbe anche voluto (noi li chiamavamo “fascisti e reazionari”) ma ormai eravamo troppo impegnati nella lotta contro le vecchie istituzioni scolastiche e chiedevamo a gran voce di essere arbitri dei nostri destini. I nostri professori e le istituzioni più in generale, dal Preside sino al ministro della P.I. (quell’anno, se le fonti e la memoria non mi ingannano, era il democristiano Misasi), d’altro canto, si scoprirono abbastanza impreparati a fronteggiare quella protesta rumorosa e convinta.

Il terzo anno,  nella Ragioneria, così come,  credo, in tutti gli istituti superiori, è un anno cruciale. Intanto di solito si cambia di corso (io infatti fui trasferito dal corso F al corso D). In secondo luogo si studiano delle materie del tutto nuove.

Così fu anche per me in quell’ottobre del 1970.

I miei nuovi professori erano assai diversi tra loro. Intanto c’erano quelli delle materie così dette di indirizzo: Ragioneria e Tecnica; oggi, nella moderna ragioneria le due materie sono state unificate sotto il nome di Economia Aziendale, ma all’epoca, come dicevo, vi erano due materie e due insegnanti. Il professore di Ragioneria era un uomo tutto d’un pezzo. Si chiamava Murru. Quando entrava in classe noi ci levavamo tutti in piedi, in segno di saluto e di rispetto (ma lo facevamo per tutti i docenti indistintamente). Col braccio destro levato in aria e la mano tesa ci ordinava di sedere senza pronunciare parola. Ma i  suoi occhi chiari e freddi  scrutavano attenti tutta la classe; quello sguardo era eloquente più di qualunque parola, così come quel saluto solenne e ormai  fuori moda: se non parlo io che sono il capo, sembrava dire il bellicoso professore di ragioneria, perché dovreste farlo voi, che siete dei poveri studenti, ancora senza arte né parte ( e chissà se mai ce l’avrete con quei cappellacci lunghi  e con quelle minigonne).

Si lavorava in silenzio e sodo. Io mi ero rassegnato a occupare  il primo banco (sempre per via della storia che i piccoletti dovevano stare avanti).

Da lui, oltre al saluto caratteristico ricordo altre due cose: la prima è che ripeteva spesso che  i sindacati, soprattutto quelli di fede socialista,  erano  la rovina dell’Italia  (narrava, a metà tra il serio ed il faceto, che i sindacalisti erano dappertutto e che se uno di noi, un domani, rientrando a casa, avesse scovato nell’armadio o sotto il letto un uomo, non ci sarebbe stato alcun bisogno di chiedergli i documenti: si sarebbe trattato di un sindacalista di fede socialista); la seconda era la tecnica che aveva per ricordare gli articoli del codice civile (questa tecnica mi tornò poi utile anche all’università per memorizzare i  quattro codici); un giorno che ci spiegava il contratto di società, citando l’art. 2247 c.c., disse che ricordava quel numero facilmente, essendo nato nel 1922 ed essendosi poi sposato nel 1947; e faceva queste associazioni per tutti o quasi gli articoli del codice civile. Della sua materia non ricordo un beato picchio. Non mi piaceva (forse perché non mi piaceva lui; o magari, viceversa, non mi piaceva lui, perché mi era antipatica la sua materia).

Era un uomo freddo e distante; sicuramente preparato (si intuiva che nella sua materia non era uno sprovveduto), non metteva  però alcuna emozione nel trasmettere la sua scienza. Quando anni dopo, sono divenuto un insegnante, ho messo l’emozione e la passione al pari con la preparazione e la conoscenza; ma io ho sempre amato le materie che ho insegnato.

E’ vero anche che i tempi sono cambiati. Oggi i giovani non accetterebbero quella severità e  quella distanza glaciale che ci separava dai nostri professori!

Io pendevo dalle labbra dei miei professori perché volevo imparare da tutti e di tutto! Ed ero come una spugna, desideroso di apprendere!

Oggi i giovani hanno a portata di click, tramite il PC o il Tablet, o meglio ancora l’ I-phone e il cellulare, tutto lo scibile possibile e immaginabile in qualsiasi campo della scienza e di ogni altro campo della vita!

Altro che giornaletti e fumetti! Altro che sognare “Le Ore!” Adesso bastano tre lettere sulla barra di Google e tutto il bello e il brutto della vita ti si spalanca davanti agli occhi! Peccato che questi giovani, troppo spesso, facciano un uso distorto e superficiale di questa portentosa invenzione chiamata Internet; di questa rete infinita di autostrade e sentieri, di valli e praterie  che si chiama WEB!

Io ammiro davvero l’ingegno umano! Ma ripeto ancora: meno male che gli altri uomini non sono come me! Altrimenti altro che World Wide Web! Noi saremmo ancora nelle caverne, arrostendo il frutto della caccia e nelle interminabili sere d’estate, siederemmo ancora attorno al fuoco, ad ascoltare dai poeti erranti, le vicende antiche delle nostre genti, tramandate oralmente di padre in figlio, da maestro a discente, da poeta ad allievo! Adorando la luna nelle notti di plenilunio.

Del  professore  di Tecnica non ricordo bene il cognome. Ricordo che la moglie era un’insegnante e che il fratello era medico sociale del Cagliari Calcio che di lì a poco avrebbe vinto lo scudetto del massimo campionato di calcio, grazie alle reti eccezionali del grande Gigi Riva.

Aveva  una barca, ormeggiata in inverno a Marina Piccola (dove ormeggiano le barche da diporto dei cagliaritani facoltosi e non solo), e in estate ormeggiata in giro per il Mediterraneo. Faceva il commercialista e l’assicuratore (più il secondo che il primo, ad onor del vero). L’assicuratore marinaio aveva mangiato la foglia e doveva essersi detto nelle sue riflessioni, tra una polizza assicurativa e una manovra di trinchetto: a questi giovani qui non gli va di fare un beato cacchio; vogliono la rivoluzione, il sei politico, la promozione garantita; fanno gli scioperi, vogliono le assemblee e la pari dignità studenti-professori! Ebbene, accontentiamoli! In un discorso alquanto serio ci aveva quindi detto: se volete lavorare, io son qua! Usatemi come si usa uno strumento e farò ciò che volete!

Detto e fatto! A noi ragazzi non ci andava di far niente (io men che meno nella sua materia)! Alle ragazze sentir parlare di strumento doveva aver fatto venire in mente delle altre fantasie, dato che il professore si presentava più alla mano rispetto a quello di ragioneria. E comunque si associarono a noi maschi per non far niente.

Ricordo anche degli altri professori. Naturalmente quello di diritto e di economia, materie che amavo e che amo ancora, come ho già avuto modo di dire! Anche se non erano le mie preferite! Le materie che mi appassionavano maggiormente erano invece l’Italiano e la Storia. Le ho sempre apprezzate! Sicuramente anche per merito delle professoresse e dei professori che hanno avuto la pazienza di decifrare la mia quasi impossibile grafia, nei lunghi temi in cui sfogavo la mia verve di imberbe scrittore! E la storia? come si può non amare la storia? Come ci si può annoiare a leggere quei libri dove vengono narrate le gesta dei nostri avi? Dove ci sono scritti i segreti e le spiegazioni di ciò che fummo e le anticipazioni di ciò che saremo?

La mia professoressa del triennio si chiamava Annamaria Chessa.

Nonostante ci desse del lei (ma tutti i docenti davano del lei agli studenti nella nostra scuola) e nonostante la sua cattedra fosse distante e sopraelevata su di  una imponente pedana, io la sentivo vicina; emanava una grande umanità e una notevole empatia la legava a noi studenti. Ha cercato di insegnarmi ad esercitare uno spirito critico e un’ intelligenza libera da pregiudizi; si preoccupava, oltre che dell’insegnamento, anche della formazione di noi giovani, trasmettendoci  il senso del dovere anche con il suo esempio. Io credo che un buon insegnante  debba prima di tutto dare il buon esempio: un cittadino si forma con l’esempio di giustizia, di lavoro, di rettitudine, di onestà, di puntualità, di disponibilità nel servizio e nella preparazione continua e ininterrotta. Il buon esempio vale più di mille parole! E lei, in questo, fu esemplare per davvero!

Mi sono ispirato anche a lei nei primi anni del mio insegnamento (anche se gli studenti mi pregavano di dargli del tu e io, dopo poco tempo, ho preso a chiamarli perfino con il nome di battesimo!).

Non si lavorò comunque molto in quei primi mesi dell’anno scolastico 1970-1971. Lo sciopero era sempre nell’aria e noi rivendicavamo il diritto di riunirci e di discutere dei problemi del mondo e non soltanto di scuola e di argomenti legati al programma.

Cominciai in quell’anno a scioperare con maggiore convinzione  anche io. Nella mia scuola vi era un gruppo di organizzatori entusiasti e capaci; erano tutti ragazzi di quarta e di quinta; qualcuno era impegnato anche politicamente; molti erano semplicemente del movimento studentesco, quello non politicizzato, che si occupava soltanto dei temi della scuola, rivendicando diritti allora quasi impronunciabili: assemblee di classe, assemblee di istituto, rappresentanza nelle istituzioni, diritto a conoscere i voti, diritto di interagire e discutere alla pari con i docenti; diritto di contestare e di ribellarci; diritti, solo diritti e sempre diritti. Gli adulti furono molto pazienti con noi. Alcuni, anche fra i politici, erano perfino impauriti. Tirava una brutta aria e certi studenti sembravano non avere alcuna voglia di scherzare. Altri uomini politici erano semplicemente dei dritti: gente che aveva studiato prima e più di noi e che sapeva che se ci avessero affrontato di petto, rischiavano il tracollo; presi così, invece, di fianco, forse ci saremmo stancati prima noi! La ribellione sembrava comunque epocale! Secondo me era il prosieguo della rivoluzione dei Figli dei Fiori! Insomma avevamo scoperto che il mondo poteva essere nostro e volevamo prendercelo, tutto e subito! Chi erano quei matusa grigi e senza fantasia per impedire a noi giovani di essere noi stessi? Come potevano impedirci di vivere le nostre esperienze? E perché soltanto i ricchi potevano andare a scuola? La cultura non era forse di tutti? E il potere non doveva essere del popolo, come insegna la parola democrazia? A questi cori confusi ed indistinti, ma forti e mirati, si aggiungevano quelli delle femministe: sesso libero; no al maschilismo; il sesso ce lo vogliamo gestire da noi; abbasso i padri  e i mariti padroni! A morte il paternalismo! Lavoro per tutti! Pillola, aborto e divorzio garantiti! Vogliamo la parità coi maschi! E così via gridando, manifestando e protestando!

Arrivammo così a dicembre. La resa dei conti dopo le schermaglie dell’ ennesimo autunno caldo.

Si fronteggiavano due Italie: una vecchia, rivolta al passato, appoggiata dalla Chiesa e dalla classe politica democristiana e liberale; l’altra, proiettata verso il futuro, rivolta in avanti, appoggiata dai comunisti, dai socialisti e dai radicali di Marco Pannella.

E chi può dire cosa sia meglio nel cammino dell’uomo? Non è che a forza di andare avanti finiremo col cadere in un burrone senza fondo? Cosa c’è dietro dell’angolo di questo infinito progresso, di questa ricerca senza fine, di questo spasmodico ritmo che travolge il passato ed è incentrato sul futuro, senza se e senza ma?

A gennaio, dopo le vacanze di Natale, si rientrava a scuola e si riprendeva a frequentare regolarmente.

Succedeva sempre e quell’anno 1971 non fece eccezione. Anche se occorre sottolineare che nella scuola c’era fermento anche tra i docenti, che rivendicavano degli aumenti stipendiali che dei governi fragili non erano riusciti a garantire (ricordo, oltre ai monocolore democristiani, i più frequenti quadripartiti con il PSI di Nenni e Di Martino che poi diverrà solo di Bettino Craxi, il PRI   di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini e il PLI di Valerio Zanone, che divennero più tardi governi di pentapartito, con l’aggiunta del Partito socialdemocratico, sino ai primi anni novanta, quando le inchieste giudiziarie di Tangentopoli spazzeranno via tutta quella classe politica) .

Sia detto per chiarezza, anche se per inciso, che dal ciclone di tangentopoli sembrò salvarsi soltanto il PCI; qualcuno pensò che il motivo stesse nel fatto che i giudici della procura di Milano e di quelle che la imitarono nell’inquisire i politici corrotti, fossero degli uomini di sinistra; ma il motivo è un altro: i comunisti, a livello nazionale, non riuscirono mai ad entrare e diedero solo degli appoggi esterni nei momenti topici della vita del Paese; il povero Aldo Moro pagò con la vita il tentativo di far sedere i comunisti ai posti di comando, nei palazzi del potere nazionale; povero Aldo Moro, chissà se voleva farli entrare per dimostrare che anche i comunisti erano corruttibili come e più degli altri politici (Enrico Berlinguer a parte), come poi dimostreranno nelle sedi del  potere regionale e, più tardi, come PD anche alla guida dei governi nazionali.

In quei primi mesi del  1971, attraverso i giornali, la radio e la televisione apprendiamo dell’esistenza  dei Tupamaros uruguaiani e degli Halcones messicani; Tito si reca in Vaticano da Paolo VI (primo leader comunista a visitare un papa cattolico); a proposito di comunisti, quelli cinesi di Maotzetung  e Ciuenlai aprono al dialogo con gli USA con il pretesto del Ping-Pong (disciplina in cui i Cinesi sono bravissimi); si parla moltissimo in Italia  anche di un colpo di stato organizzato dalla destra, su imitazione di quello avvenuto  in Grecia nello stesso anno, per portare i militari al governo.

Sembra che l’anima del fallito golpe sia stato il principe Junio Valerio Borghese, un pluridecorato eroe, militare e militarista. Viene trovata anche la lista dei 500: politici, imprenditori, militari e semplici cittadini (tra cui figurano nomi che vediamo ancora adesso in TV: Berlusconi, Cicchito, Costanzo); sembra che questa lista sia legata a un certo Licio Gelli, grande maestro della massoneria, anticomunista, poeta e grande organizzatore. Si sente inoltre parlare per la prima volta di Gladio, un’organizzazione, anch’essa segreta, come la P2 di Licio Gelli, che sottotraccia deve monitorare la politica italiana, pronta ad intervenire nel caso i comunisti, con le buone (attraverso normali elezioni) o con le cattive ( Lotta Continua, Potere Operaio, le Brigate Rosse ) assumano il potere. Insomma, si vive in un gran bailamme di notizie non confermate, di sospetti, di intrighi e di misteri.

Potevo io, coi miei poveri diciassette anni, neppure compiuti, riuscire a  dipanare quelle matasse aggrovigliate di complotti, di intrecci politici, di associazioni segrete, di poteri occulti, quando in realtà non avevo neppure presenti e chiari i poteri palesi e istituzionali (peraltro fragili e perfino poco autorevoli e scarsamente indipendenti in un mondo che sembrava dominato alla grande dal gigante USA)?

Infatti non li capivo. Protestavo, come tanti giovani di allora, contro la corruzione, lo strapotere democristiano, l’imperialismo americano, l’arroganza dei ricchi, le scarse opportunità offerte ai figli dei proletari, lo sfruttamento degli operai, la scarsa libertà, il perbenismo interessato (come cantava il grande Francesco Guccini), la voglia e il desiderio di un mondo diverso, con più uguaglianza, con una più equa distribuzione della ricchezza, con più lavoro e più benessere per tutti. Protestavo perché intuivo, più che capire, che era il momento di far sentire la nostra voce, la voce dei deboli, di coloro che erano stati zitti per lunghi anni, forse per decenni o addirittura per secoli!

Ma il 1968 ( e gli anni di riverbero e prosecuzione) non sarà stato il prosieguo dei moti del 1848? Ci sarà un filo comune che lega le ribellioni di ogni tempo contro il potere costituito, contro ogni forma di oppressione, contro chi si arroga il diritto di tenere per sé tutta la ricchezza che si produce, prima nelle terre e nelle miniere, poi nelle industrie e nelle fabbriche?

Forse la vita è soltanto un susseguirsi di sopraffazioni cui fanno seguito delle illusioni, dei sogni, delle ribellioni, delle piccole, provvisorie conquiste; e poi, inevitabile, subentra nuovamente la repressione che si riprende, con gli interessi e la vendetta, quello che ha dovuto cedere obtorto collo!!!

Mi sembra di averlo letto, forse nei libri di storia; o in qualche romanzo; o forse nei giornali. O magari l’ho inventato io! Però mi sembra che sia proprio così!

E a pensarci bene, certi misteri e certi intrecci italiani non li ho capiti neppure oggi che negli -anta ci sono da molti decenni!

A giugno arrivò un’altra promozione diretta. Promosso alla quarta classe, diceva la pagella! Potrà sembrare buffo ma leggendo quella pagella io mi chiesi se sarei stato all’altezza di quella promozione! Sarei stato capace di organizzare gli scioperi, di condurre dei dibattiti, di affrontare il preside e i professori con il piglio che esercitavano quei fratelli maggiori che andavano diplomandosi?

Dicono che per maturare, ciascuno di noi debba percorrere i suoi sentieri; e dicono anche che questi sentieri siano sempre costellati di errori, ingenuità e fraintendimenti, frutto della nostra inesperienza, della nostra spavalderia, del nostro carattere, più o meno forte, più o meno profondo, più o meno riflessivo; frutto della nostra cifra intellettiva, ma anche di ciò che abbiamo vissuto, del latte che abbiamo succhiato, dell’aria che abbiamo respirato, della cultura di cui siamo stati imbevuti sin dai nostri primi passi sulla terra. Frutti del mistero chiamato uomo.

Io amavo ascoltare la canzone  “Un fiume amaro”, nella traduzione dal greco proposta dalla voce di Iva Zanicchi. E mi crogiolavo così, in quella età incerta che chiamano adolescenza, dove non si è ancora uomini e non si è più ragazzi. E si vorrebbe essere un altra persona, da un’altra parte della terra, in un luogo ideale, quello dei sogni che non  si avverano mai, ma senza dei quali non possiamo vivere.

Tra i brani stranieri preferivo  “My sweet Lord!” di George  Harrison, e mi chiedevo chi fosse mai quel Dio cantato dal più mistico dei Beatles; sicuramente era un Dio, pensavo io nella mia ignoranza, diverso da quello dei papi del nepotismo rinascimentale, grandi predicatori e voluttuosi razzolatori, un dio diverso da quello che risiedeva nel Vaticano dei mille misteri e dei ricchi cardinali; delle chiese e delle prediche così distanti da noi poveri giovani, in cerca di libertà e piacere a basso e pronto consumo. Forse era un Dio permissivo e generoso, che riusciva a parlare e a ispirare i musicisti del movimento rock; un dio giovane e moderno, non un vecchio barbone semiaddormentato nei cieli che non riusciva a vedere le storture e le ingiustizie del mondo; che non riusciva a fermare le sempiterne guerre dell’uomo, le sue avidità, la sua prepotenza, la sua violenza.

Beata presunzione della prima età! Come se i peccati dell’uomo non fossero un frutto dell’uomo stesso,  ma fossero da addebitare a un’entità esterna e responsabile delle nefandezze umane!

Ma in fondo  la canzone che ascoltavo con maggiore coinvolgimento emotivo, in assoluto, era “Samba pa ti” di Carlos Santana (un altro mistico che cercava Dio). Con le sue note vibrava il mio stesso corpo al contatto con altri corpi, nei balli che riuscivo a strappare nelle balere di provincia, dove la domenica cercavo di dimenticare i miei  enigmi esistenziali.

Al compimento del ventunesimo anno, come ho già detto,  mio fratello Pietro Marino, in aperto dissenso con la strategia di espansione aziendale che nostro padre aveva perseguito per anni, se n’era  andato via di casa per tentare, in solitario, la sua fortuna commerciale.

La sua ribellione, che in realtà aveva serpeggiato sotto traccia sin da quando mio padre lo aveva ritirato dalla scuola pubblica per avviarlo alla sua scuola di orologiaio,  era esplosa apertamente, per una magica e strana coincidenza, proprio  nel 1968. In quell’anno infatti il mio fratello maggiore aveva compiuto i 21 anni (che all’epoca segnavano per legge il compimento della maggiore età). A parte quella coincidenza, mio fratello Marino al movimento rivoluzionario ’68 non sembrava attribuire  troppa importanza, se non per criticarlo e addirittura esecrarlo per i suoi eccessi .

La sua ribellione non era infatti contro una società  che, spinta da quelle forze misteriose che l’uomo ha imparato a etichettare come rivoluzioni e progresso, la sottopongono a continui e perenni trasformazioni, ma bensì contro l’autoritarismo paternalistico di nostro padre. Che poi, se vogliamo, a ben vedere, era un modo pragmatico e  personale di fare il ‘ 68. Che altro non fu quel movimento, se non una ribellione contro l’autoritarismo e  il potere costituito a favore di una maggiore libertà e di una più autentica democrazia?

Pur tuttavia mio fratello a parole e nei fatti aborriva la protesta giovanile; denigrava i capelloni, propugnava sonore legnate per gli studenti e i lavoratori scansafatiche e per i sindacalisti che li appoggiavano nei continui e rumorosi scioperi; rifuggiva dalle mode che tentavano e di fatto omologavano tutto e tutti, quasi imponendo comportamenti consumistici di massa; odiava la sinistra extraparlamentare  e i comunisti ortodossi allo stesso modo; detestava le femministe, per non parlare delle droghe  e di ogni altra forma di evasione che andasse fuori dai binari tradizionali.

E non di meno, gli slogan della sua lotta contro l’autorità paterna,  erano stati  ”Viviamo in un regime di libertà!” “Il sabato e la domenica li voglio liberi!” “Il ventennio è finito da un pezzo!” e così via protestando.

Nell’estate  del ’71 mio fratello  Marino aveva abbandonato il vecchio locale di via Cagliari, dove  io, in un recente passato,  gli avevo fatto compagnia e si era trasferito in via Roma.

Il cambio di negozio non giovò soltanto agli affari (che subirono un notevole incremento) ma anche e soprattutto all’umore e alla salute di mio fratello che parvero rifiorire da quelle lande di depressione e malessere in cui sembravano essere scivolate dopo la sua grande ed eclatante rivolta contro i disegni egemonici di mio padre.

I clienti entravano ed uscivano in continuazione, soprattutto la sera. Mio fratello vendeva con discrete capacità ed io lo affiancavo per vedere che qualche mariuola dalle mani svelte, approfittando magari di un suo momento di distrazione, facesse sparire qualche oggetto d’oro.

-”Stai attento soprattutto se vedi qualche avvenente ragazza che mette in mostra le tette!” – soleva ripetere mio fratello per darmi la carica.

Quando vi era più di un cliente anche io ero autorizzato a servire al banco, sia per la vendita di oggettistica minuta,  sia per sostituire un cinturino o altre facili operazioni.

Il periodo più calmo era a fine mattinata. Il negozio chiudeva alle 13,00 ma alle 11,30 in giro non si vedeva molta gente. Anche a Samassi, come in tutti i paesi a vocazione agricola della zona, il pranzo è rigorosamente previsto alle 12,00.

Mio fratello ne approfittava per fare le riparazioni.

Si accomodava di buona lena al  moderno banchetto da lavoro in legno, che aveva  una serie  di cassetti laterali di diverso spessore, un ripiano centrale, con rientranza a mezzaluna,  illuminato da una  lampada alogena e  con un reparto a scomparsa, sottostante,  che conteneva l’attrezzeria mobile di uso comune: l’apricassa, un paio di  cacciaviti, le pinze a becchi tondi, la lente d’ingrandimento, l’estrattore per vetri, lo stantuffo, la spazzola; le pinzette finissime, gli oleatori, le boccette degli acidi, del grasso e dell’olio stavano sul ripiano rigido oppure protetti nei cassetti, comunque sempre chiusi dalle apposite protezioni. E naturalmente vi era tutto il necessario per le sostituzioni e i ricambi di routine per gli orologi meccanici di allora: corone,  alberi e molle di carica; vetri infrangibili; assortimento di assi per bilancieri di orologi; un vasto assortimento di cinturini, sfere delle ore, dei minuti e dei secondi e una infinità di ansette, viti, ingranaggi, rocchetti, perni e mollette a volte quasi invisibili a occhio nudo.

Io lo guardavo affascinato, come avevo fatto qualche anno prima al seguito di mio padre. Era preciso e delicato esattamente come il suo maestro. Solo che al contrario di lui, mio fratello amava chiacchierare durante il lavoro di riparazione al banco (a parte in quei rari momenti topici in cui il lavoro richiedeva un’applicazione particolare e massimo silenzio).

Se  era di malumore mi parlava della sua infanzia disgraziata, di quanto avrebbe voluto studiare invece di essere stato brutalmente messo a bottega; degli errori di   mio padre  che non era stato capace di costituire una vera società familiare a causa del suo carattere dispotico e poco comunicativo; dei suoi amici, tutti sfortunati e pieni di problemi; e di donne.

In  fatto di donne, mio fratello era un grande esperto;  si prodigava infatti in  un vero profluvio di pillole di saggezza sulla materia: a cominciare dal carattere delle donne e sulla loro psicologia instabile e umorale; e sulle loro apparenti virtù di castità e ritrosia; sulla inutilità di stabilire con loro relazioni stabili e sulla convenienza a farsi delle avventure, senza scrupoli e senza rispetto. Aveva in generale poca stima del sesso femminile; alcune categorie sociali erano da lui etichettate come poco di buono, da evitare come la peste: erano le parrucchiere e le infermiere, a suo dire, tutte ragazze di facili costumi, da non considerare per eventuale relazione stabile, tutt’al più, se fossero state “bone”, da inforcare e via. Mi raccomandava di non lasciar correre le numerose occasioni che, fortunato com’ero, lui non si sarebbe certo fatto sfuggire, nel mondo corrotto e libertino della scuola, dove le donne cercavano una cosa sola; e bisognava dargliela! Lui sì che avrebbe provveduto alla grande! E guai se io mi fossi tirato indietro.

Io avrei preferito dei consigli più pratici, magari su come corteggiare una donna, come conquistarla, su quale fosse stato l’approccio più corretto per entrare in quel mondo femminile così ricco, per me, di attrattiva, di fascino e di mistero; ma mio fratello era un fiume in piena e non sembrava attribuire alla psicologia un ruolo rilevante; le donne, secondo lui, erano delle bambole da conquistare, da trombare e da mollare.

Oggi capisco che quelle sue contumelie erano il risultato di tutte le delusioni che lui aveva avuto nei suoi rapporti con il gentil sesso.

Perché queste delusioni gli fossero occorse non so spiegare nel dettagli, perché lui non si confidava con nessuno sulle sue vicende private.

Posso però supporre che il mio caro e sfortunato fratello sia in qualche modo rimasto vittima della sindrome del bravo ragazzo di cui le donne sembrano essere, a loro volta,  vittime (qualcuno la chiama la sindrome della crocerossina; non so però se i due paradigmi affettivi coincidano davvero).

E’ noto  comunque che  le donne siano attratte più dalle simpatiche canaglie che dai bravi ragazzi. Mio fratello era sicuramente un bravo ragazzo, affidabile, con un’ottima posizione economica eppure con le donne non ebbe mai fortuna.

Guardandomi in giro ho visto spesso delle ragazze molto carine e pulite, accompagnarsi con dei ceffi dall’aspetto poco raccomandabile. Mio padre,  a tal proposito,  ripeteva spesso che se fosse nato donna,  sarebbe morto vergine, perché mai si sarebbe fatto toccare da certi elementi maschili, neppure con una canna di venti metri!

Io allora vedevo le donne come delle dee, da adorare e venerare; sicuramente da rispettare e da amare, ma mai da considerare come una merce di consumo, da pagare per delle prestazioni sessuali;  e neppure dei corpi di cui godere,  per poi scappare, in cerca di altro piacere, come sembravano suggerire le teorie di mio fratello ma anche di tanti altri uomini di mentalità maschilista.

Eppure questa attrattiva che i cattivi esercitavano sulle donne; questa loro attitudine a legarsi sentimentalmente con dei caratteri arroganti, con degli spavaldi, quando anche non perfino delinquenti e malvagi,  per me rimane un mistero irrisolto e, forse, irrisolvibile.

Può darsi che sia soltanto un problema di sicurezza interiore. Ho avuto modo, in periodi diversi della mia vita, di appurare che le donne sono attratte da un carattere stabile, fermo e sicuro; magari per contrasto con il loro carattere, in fondo volubile e, se non altro,  fisicamente più fragile. E a volte, ai loro occhi, un bravo ragazzo è soltanto un carattere insicuro e fragile (e si sa che i simili si respingono);mentre gli opposti si attraggono; ed ecco spiegata la loro attrazione per i supermachos motorizzati, che vivono ai margini della legge e che non hanno altre sicurezze nella vita che il loro ego smisurato e la loro boria.

Eppure i femminicidi che si susseguono oggi a ritmo impressionante, mostrano al contrario una grande fragilità psicologica nei maschi e allo stesso tempo sembrano dar ragione però a una certa attitudine all’autodistruzione ed ai guai che le donne hanno sempre mostrato di avere, sin nella scelta dei loro uomini.

Così passò anche quell’estate del 1971, tra grandi discorsi, inestricabili misteri e canzonette facili che mio fratello metteva alla radio in sottofondo, quando non ascoltava chiamate Roma 3131 o altri programmi radiofonici pseudo-culturali.

Tra le canzoni che più ho amato, in quell’anno, oltre a quelle già menzionate nei capitoli precedenti, mi piace ricordare “Ed io tra di voi” e “L’istrione” di Charles Aznavour; “Donna felicità” dei Nuovi Angeli; “Pensieri e parole” del grande Lucio Battisti (e di Mogol Giulio Rapetti).

Quando tornammo a Cagliari, preludio all’inizio dell’anno scolastico, imparai da un amico quattro accordi alla chitarra ( Do,  La minore, Re minore e Sol). Davvero ben poca cosa se si pensa che in questo stesso anno i Led Zeppelin pubblicano “Stairway to Heaven”, David Bowie “Ziggy Stardust” e i Rolling Stones “Brown Sugar”.

Ma io li avrei conosciuti soltanto qualche anno più tardi. Quell’anno conobbi “Jimi Hendrix” ed il suo meraviglioso “Electric Ladyland” grazie a uno scambio che feci con un amico che nel darmi la cassetta di Hendrix in cambio di una che io avevo di Orietta Berti (non ne ricordo il titolo, né come l’avessi avuta, perché in realtà non l’avevo mai neppure ascoltata) mi disse di pensarci bene, perché stavo facendo il peggiore affare della mia vita e che lui era disposto a darmela senza niente in cambio, perché comunque lui ne avrebbe guadagnato qualcosa già  nel liberarsene.

Io ascoltai per anni, in estasi, quelle meravigliose composizioni musicali, quella magica chitarra, quella voce che sembrava arrivare da un altro mondo. Solo più tardi scoprii che dietro quelle composizioni musicali, così come per quelle dei Led Zeppelin, dei Rolling Stones, di David Bowie e di tanti altri artisti della musica rock c’era davvero un altro mondo, fatto di esperienze vissute attraverso il consumo di sostanze stupefacenti, dalle più leggere e forse innocue, a quelle più pesanti e micidiali. Tanto ciò è vero che molti di questi artisti sono morti per l’abuso di queste sostanza stupefacenti. Ma all’epoca io ero davvero all’oscuro di queste esperienze,  che feci soltanto  più tardi negli anni, quando mi recai  a Londra, in cerca neppure io saprei dire di cosa. E anche di questo avrò  modo di parlare in seguito al paziente ed affezionato lettore, se vorrà continuarmi a seguire.

Io però, all’epoca,  non vedevo l’ora di tornare a scuola. Lì, più che in casa mia, trovavo la mia dimensione ideale.

E poi adesso mi aspettava la quarta. Stavo diventando grande, anche se non me ne accorgevo.

 

Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.

https://www.youcanprint.it/biografia-e-autobiografia-generale/memorie-di-scuola-9788827845486.html

 

Memorie di scuola – Parte terza

copertina memorie

Capitolo quinto

Faccia la persona seria

a.s. 1991-1992

Riflettevo ancora in quei primi anni di insegnamento a quanto fosse vero ciò che mi aveva detto un medico che avevo conosciuto al Comitato di Gestione della  USL di Sanluri, dalla cui assemblea (formata dai rappresentanti di oltre 35 Comuni della Marmilla e dintorni) ero stato indicato per gestire quel particolare settore pubblico, vero e proprio crocevia amministrativo,  dove le tentazioni della politica toccano il proprio apice.

Basti pensare che la Sanità assorbe una fetta del PIL nazionale assai consistente. Una torta davvero appetitosa per politici rampanti e voraci, come sono, da sempre,  i politici italiani. Chi non ricorda Sua Sanità Francesco de Lorenzo, ministro della Sanità, vicerè di Napoli e dintorni, detronizzato da 145 capi di imputazione dal pool di Mani Pulite, insieme al suo braccio destro Poggiolini, cui vennero sequestrati migliaia di miliardi (di cui parecchie centinaia fungevano da imbottitura dei suoi divani e delle sue poltrone) di mazzette incassate quando dirigeva il servizio farmaceutico proprio al ministero della Sanità di De Lorenzo?

E’ inoltre notizia di questi giorni (segno che 25 anni, da quando il mariuolo socialista dell’albergo milanese del Pio Albergo Trivulzio venne acchiappato con le mani nella marmellata, dando la stura a quella terribile stagione che va sotto il nome di “Mani Pulite”,  sembrano non essere mai passati),  la condanna definitiva subita da Formigoni, presidente della Giunta Regionale della Lombardia per oltre un decennio, che sulla Sanità ha perso l’onore e il senno: mazzette milionarie (questa volta in Euro), viaggi, regalie, alberghi di lusso e fiumi di danaro, tutti provenienti dalla Sanità lombarda.

Insomma, dicevo, io ero finito in questa specie di regno di cuccagna (seppure periferico e provinciale rispetto alle più ricche USL delle città capoluogo sarde). Era mia profonda convinzione (e lo è tuttora) che io, nella mia veste di consigliere comunale del paese natio, dovessi rappresentare, con spirito di servizio, in scienza e coscienza, come si suole dire, le istanze della gente comune che mi trovavo a rappresentare.

Capii però da subito che i miei colleghi del Comitato di Gestione non erano animati dalla mia stessa vocazione e dal mio medesimo spirito di servizio.

Naturalmente non ebbi mai prove delle malefatte che i miei colleghi del Comitato Gestione probabilmente fecero a mia insaputa. Io posso dire a mia discolpa che non ero soltanto ingenuo e onesto, ma che credevo davvero nella riforma sanitaria e mi consideravo lì per lavorare al fine di realizzare gli obiettivi della riforma del 1978: una migliore sanità per tutti i cittadini, i malati e gli utenti. Ebbi però sentore che qualcosa accadeva dietro le quinte. Ad esempio, se piombavo all’improvviso nel bel mezzo di una riunione informale, mi accorgevo che i miei colleghi cambiavano repentinamente argomento e leggevo l’imbarazzo nel loro viso. Di lì a poco il ciclone di Mani Pulite li avrebbe spazzati tutti via, insieme alla Prima Repubblica, anche se sinceramente non saprei dire se la Seconda Repubblica sia stata meglio della Prima.

Insomma, io , un po’ vigliaccamente, dopo tre anni di gestione della sanità marmillese,  diedi le dimissioni, forse memore di quanto mi aveva consigliato il relatore alla mia tesi, il compianto internazionalista, prof. Pau di Oristano , quando, poco prima di laurearmi, nel 1984, gli avevo detto che mi sarei candidato alle comunali del mio paese, dandomi, per così dire, alla politica: “ Basile, faccia la persona seria!”, fu per l’appunto il suo asciutto commento.

Dopo essere stato eletto, e dopo aver vissuto l’esperienza di consigliere comunale (all’opposizione) e di membro del Comitato di Gestione (in maggioranza) capii il senso profondo di quelle sagge parole. E ogni tanto, quando assisto al teatrino della politica in TV o sui giornali, ripenso a quel mio vecchio e saggio professore.

Questo medico della USL di Sanluri, vice coordinatore sanitario, mi disse che la migliore età per un uomo è quella che va dai trent’anni ai quarant’anni, quando un uomo è ancora nel pieno vigore fisico e può viverlo nella piena maturazione intellettuale.

E infatti così mi sentivo in quel frangente della mia vita. E in quel settennio che mi separava dal compimento del quarantesimo compleanno, dopo che avevo vinto  il mio primo e unico concorso pubblico (a parte quello per l’abilitazione alla professione di avvocato, che comunque avevo sostenuto e superato a pieno merito nel 1990), mi buttai a capofitto in mille iniziative di carattere intellettuale: mi iscrissi all’università di scienze politiche per prendermi la seconda laurea; tentai di diventare ricercatore universitario (come avrò modo di narrare in maniera dettagliata, al paziente lettore,  nel prossimo capitolo); ripresi a studiare le lingue straniere (inglese, spagnolo, portoghese, francese  e arabo); e mi sentivo un leone in gabbia, voglioso di rompere tutti gli indugi e di superare ogni ostacolo; niente mi faceva paura e tutto mi sembrava raggiungibile e perseguibile. E anche con le donne sembravo avere imboccato la strada giusta; finalmente ero pervenuto a una piena sintonia con l’altro sesso, ciò che consentiva facilità di approccio e agevoli e disinvolte frequentazioni.

Certo stentavo ancora a entrare nell’ordine di idee di intraprendere una storia seria e matura, illudendomi che fosse possibile vivere in maniera indolore delle storie superficiali e passeggere, all’insegna del puro piacere fisico.

Così è la gioventù e tali sono le nostre illusioni. Ma come faremmo a vivere senza sogni e senza illusioni?

Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.

Memorie di scuola – Parte prima

Attraverso questo link potrai leggere gratuitamente i primi capitoli del mio libro “Memorie di Scuola”. Grazie per l’attenzione e buona lettura!

https://books.google.it/books?id=PTB3DwAAQBAJ&pg=PA1&lpg=PA1&dq=ignazio+salvatore+basile&source=bl&ots=t1WFNizyCh&sig=ACfU3U3ggeNFGTSBOYv3fOY2s5ZH0txBcQ&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwi97YLE1I7hAhUQ-aQKHdEoCFs4FBDoATANegQIABAB#v=onepage&q=ignazio%20salvatore%20basile&f=false

copertina memorie

Energia pulita: si può!

Interessante e promettente il progetto realizzato nellle campagne di Villasor da una joint-venture indo-americana.

Come riportato da Tiscali (v. link sottostante) si tratta della serra fotovoltaica più grandel mondo.

Si estende su una superficie di 27 ettari fornirà l’energia pari a 20MW a beneficio di 134 serre per la produzione di frutta, verdura e fiori di qualità, sia per il mercato interno sia per l’esportazione.

Il progetto è costato 70 milioni di Euro e l’insediamento serricolo moderno, gestito dacinque cooperative, frutterà ben 90 posti di lavoro.

Una bella notizia che fa ben sperare in un futuro di progresso economico all’insegna della salvaguardia dell’ambiente.

Complimenti e grazie di cuore a chi ha creduto nel progetto.

Speriamo si possa replicare presto in altre zone della nostra Isola, finalmente lanciata verso la sua vocazione di un’economia basata sul Turismo, sull’Agricoltura pulita, sull’Artigianato e sull’Ambiente.

http://notizie.tiscali.it/regioni/sardegna/articoli/11/11/30/serra.html