I Nuovi Baroni

Capitolo Quarto

Il giorno dopo, all’alba, Giaime Cossu era già in viaggio. Aveva scelto come accompagnatore un giovane prestante, svelto di coltello e abile cavallerizzo. Il giovane gli era debitore, per averlo tolto dai guai quando lo avevano incriminato per avere accoltellato un uomo che gli contendeva i favori di una popolana, proponendosi di essere un suo protettore, pur non avendo la forza necessaria per proteggerla veramente, almeno non nei confronti di Diego Murenu, più alto di una spanna di quel sedicente protettore, più forte e sicuramente dal carattere più volitivo e deciso.

Per fortuna il suo rivale non era morto e lui si era offerto di pagare le cure per farlo guarire. Diego Murenu dal giorno aveva rigato dritto, affiancando suo padre nell’attività di pescatore; attività che lasciava però volentieri, ogni volta che il suo salvatore, verso il quale provava una profonda gratitudine, scevra però da ogni piaggeria, ne aveva avuto bisogno.

 Tanto più che la retribuzione che gli garantivano quelle episodiche collaborazioni, non facevano certo rimpiangere i magri profitti della pesca in mare.

Lungo la strada, attraversando i campi, Giaime Cossu, seguito a cavallo dal suo fido accompagnatore Diego Murenu, osservò con attenzione i campi di grano, già in gran parte mietuti, e le vigne rigogliose ben curate, che mostravano già i primi tralci ancora acerbi. Si inebriò di quei colori e degli odori che la campagna emanava. I numerosi braccianti addetti ai lavori dei campi raramente sollevavano le schiene ricurve per osservare quei due forestieri. La fatica era più forte della curiosità. Giaime notò tuttavia che erano i padroni, o quelli che dirigevano le attività agricole a rivolgergli un cenno di saluto, dopo averli osservati con quello sguardo di diffidenza e curiosità tipico dei contadini alla vista dei forestieri. In questi casi anche lui si limitava a un fugace cenno di saluto, educato ma non troppo espansivo.

Poco prima di mezzogiorno giunsero a Villa di Sor, alla casa di Don Gavino Palacio, adiacente alla Rettoria di cui il religioso era a capo. Furono introdotti alla sua presenza dal suo campanaro e sagrestano, nonché portinaio e factotum Luisu Caboi.

Don Gavino Palacio era un uomo dal fisico prestante e dal carattere forte. Il capostipite della sua famiglia, di solida origine iberica, era stato un hidalgo di nome Rodrigo, sbarcato in Sardegna al seguito di uno dei tanti viceré spediti da Madrid al tempo della dominazione spagnola, per domare, sottomettere e spremere quel regno arcano, che come altri possedimenti, adornavano la corona del suo sovrano. 

Anche quel regno, più vicino, più piccolo e più povero degli altri   territori lontani, che rappresentavano il mitico “El Dorado” delle Americhe, per meritare un tale elevato onore, aveva il dovere di contribuire fattivamente al sostentamento della corona spagnola, per la gloria superiore dello stesso re, della sua nobiltà, piccola o grande che essa potesse essere, e della religione cattolica.

Don Rodrigo Palacio, cha apparteneva alla più piccola delle classi nobiliari della corona spagnola, all’apice della sua personale carriera, quando ormai, non soltanto la gloria del siglo de oro, ma anche quella più modesta dell’ultimo dei Borbone stava transitando nel crepuscolo della storia, era assurto al grado di Capitano Regio.

 Sarebbe però morto in miseria, più o meno come aveva vissuto sino ad allora, se non avesse avuto la fortuna di sposare la ricca e giovane vedova di un facoltoso notaio di Monastir, un certo Clemente Sanna ch’era riuscito, grazie alla sua prestigiosa professione, ad accrescere in maniera considerevole il patrimonio dei suoi avi.

Con l’aiuto di un bravo avvocato e grazie a una specifica disposizione testamentaria, la bella vedova era riuscita a salvare una fetta consistente del patrimonio del defunto marito dagli assalti famelici dei cugini e dei nipoti.

 E dove non erano riusciti utili i codicilli e le pandette di quell’aggrovigliato e complesso ordinamento giuridico che costituiva l’ossatura dei rapporti economici della società sarda di allora, ci avevano pensato il carisma militare e gli appoggi altolocati che l’hidalgo spagnolo era riuscito a trovarle, in rafforzamento delle sue ragioni ereditarie.

 Dalla coppia erano nati due figli maschi: Vincente e Ferdinando e una femmina di nome Isabela.

  I due figli maschi, in forza delle norme successorie dotali che prevedevano, per mantenere integri i grossi patrimoni terrieri, di liquidare le donne con una dote in danaro contante, onde lasciare così le terre in eredità ai soli figli maschi, avevano liquidato la sorella con una congrua dote.

 Ferdinando, poi, dotato di una maggiore predisposizione agli studi, aveva scelto una carriera alternativa alla gestione delle proprietà familiari ed era stato anche lui liquidato con una sostanziosa somma in danaro sonante.

 Ma quando Vincente era morto senza figli, il patrimonio originario della moglie del capostipite Rodrigo era tornato indietro a don Ferdinando Palacio e, successivamente, ai suoi due figli Carlos e Victorio.

Dei numerosi figli del primo, erano sopravvissuti soltanto Consuelo e Gavino, nati a distanza di quasi vent’anni, che vivevano insieme nel Rettorato Maggiore del marchesato di Villa Sor, mentre del secondo, l’unica figlia era Mercedes, la moglie del Reggente della Cancelleria Reale Giovanni Maria Meloni.

Novecento starelli di terreno fertile, per metà seminativo e per l’altra metà coltivato a ulivi, vigne e frutteto, al confine con la villa di Monastir, erano la parte toccata ai tre cugini di quell’antica ricchezza, entrata nel loro possesso non come proprietà infeudata, ma come attribuzione dominicale che però godeva del privilegio dell’esenzione ecclesiastica.

E questa era la ragione per cui donna Mercedes l’aveva lasciata nel possesso del cugino religioso, accontentandosi di modeste rendite, che certi anni arrivavano in ritardo o arrivavano dimezzate, con il tacito e inespresso accordo che un giorno la proprietà si sarebbe ricomposta in capo a lei per intero.

Tanto più che Giovanni Maria  Meloni, grande esperto di questioni giuridiche, studiando le carte dei possedimenti di sua moglie, aveva intravisto una serie di  clausole oscure che gli avevano suggerito l’opportunità di lasciare la proprietà ancora indivisa, in attesa che l’ordinamento giuridico si proiettasse in una dimensione più liberale, suscettibile di recidere una volta per tutti i legami con quel coacervo aggrovigliato di norme e consuetudini che soffocavano, insieme all’economia della Sardegna, anche i singoli individui che avevano la sventura di trovarsi di fronte a un consesso di giustizia.

A dispetto delle sue sicure origini iberiche, don Gavino Palacio tuttavia, non sembrava parteggiare affatto per i feudatari, connazionali del suo capostipite Rodrigo. Al contrario, le sue simpatie andavano all’altro dei due partiti che all’epoca si fronteggiavano fieramente, quello dei lealisti savoiardi.

Non che don Gavino si sentisse particolarmente trasportato a simpatizzare per il partito dei piemontesi, contro quello degli spagnoli.

 Egli aveva opportunisticamente valutato che la condizione di miseria in cui versavano i vassalli degli antichi feudatari spagnoli, indirettamente si ritorceva contro di lui.

Se  infatti  quegli sventurati si fossero affrancati dagli antichi  balzelli feudali,  la ricchezza delle terre infeudate, anziché prendere il volo verso Vienna e verso Madrid, ad accrescere le casse degli avidi baroni di quegli antichi  imperi ormai al tramonto, sarebbe rimasta in loco e di quella nuova prosperità lui sarebbe stato il primo a usufruirne, grazie alle offerte per i suoi inflessibili tariffari: un tot di lire sarde o piemontesi per il Battesimo, almeno qualche scudo per il matrimonio e molti di più per l’ultimo viaggio, quello più costoso e bisognevole di preci accompagnatorie. 

 Senza contare che tra le terre infeudate ve n’erano non poche che confinavano con le sue proprietà; e una volta riscattate, lui avrebbe potuto ampliare i suoi confini, senza suscitare le proteste di alcuno.

Nell’applicazione del suo tariffario il Rettore Palacio era inflessibile e i suoi fulmini cadevano implacabili su quelli che non provvedevano a sistemare in anticipo e in maniera soddisfacente l’incombenza.

In tali casi, durante l’omelia della cerimonia   matrimoniale poteva capitare ai malcapitati sposi, ch’egli citasse la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, ai versetti 25-31 del Capitolo Settimo, rimarcando con ferace precisione, il riferimento alle tribolazioni della vita matrimoniale e la volatilità dei suoi piaceri.

E se fossero appartenuti alla classe prima, quella dei Printzipales, o anche alla seconda, quella dei Mezzani (per quelli della terza classe non c’era alcun pericolo, perché don Gavino Palacio le cerimonie le passava al suo vicario, adducendo improrogabili e insormontabili impegni), allora aveva pronte le ammonizioni contenute nei versetti da 23 a 26  del Capitolo Sesto del Vangelo di  San Luca, per avvertirli sulla perniciosità della loro ricchezza, che si poteva scansare, insieme al fuoco delle pene eterne, con congrue donazioni agli uomini di chiesa come lui.

Insomma don Gavino Palacio non brillava certo per le sue doti spirituali, anche se all’età di cinquantacinque anni, sembrava essersi avviato a una savia vecchiaia e a una gestione, se non altro, ordinata della sua Rettoria. E questo grazie anche a sua sorella Consuelo, la vera, autentica anima spirituale della famiglia.

Ma l’occhio materiale di don Gavino continuava a pungere. Lo stesso occhio che si puntò con sospetto sopra Giaime Cossu e sopra il suo accompagnatore, quella mattina.

«Ah, dunque è mia cugina Mercedes che vi manda? E per che cosa di specifico?», disse dopo aver letto la lettera di presentazione che Giaime gli aveva consegnato, dando così a intendere di non accontentarsi di quella spiegazione così vaga e generica. Il suo animo sospettoso era esacerbato dal pericolo che quel messo potesse ostacolare il suo godimento indisturbato delle comuni proprietà terriere.

«Donna Mercedes mi ha raccomandato di porgervi anche questi, insieme alle mie riverenze e ai suoi saluti», disse per tutta risposta il messo cagliaritano consegnando al prelato il più pingue dei due sacchetti, quello contenente trenta scudi d’argento.

Il tintinnio del contenuto del sacchetto di monete fece cambiare atteggiamento al prelato, facendolo sorvolare sul fatto che si sarebbe aspettato almeno un congruo preavviso per quell’ospite inatteso e perfino indesiderato. Se sua cugina gli mandava dei danari voleva dire che non se ne aspettava da lui. A maggior ragione, poiché si sentiva in colpa per non averle mandato alcuna rendita nel corso dell’anno già avanzato.

«Questi scudi d’argento ci fanno davvero comodo», disse intascando la bella somma. Tanto più che quest’anno i nostri terreni osservano l’anno paberile, come nostra cugina sa per certo».  Don Gavino tacque la circostanza che era soltanto la metà della proprietà comune ad essere soggetto all’anno di quiescenza che,  per antica consuetudine,  si alternava ai due anni in cui venivano seminati i cereali e che l’altra metà aveva dato un’abbondanza di frutta mai vista prima; e comunque anche quella metà, nell’anno di riposo, veniva data in affitto ai pastori che non potevano mancare di compensare il proprietario riconosciuto con ricche prebende, soprattutto in materia prima; il che significava latte, formaggi e carne di pecora e di mucca assicurata per tutto l’anno, giorni feriali e feste comandate incluse.

«Ma prego, entrate cavaliere. Adesso farò sistemare il vostro scudiero e i vostri animali negli alloggi adiacenti alla stalla mentre vi introduco alla padrona di casa, mia sorella Consuelo, che sarà ben lieta di conoscere l’inviato della nostra amata cugina Mercedes».

Giaime Cossu ebbe un’accoglienza calorosa da parte della sorella del Rettore. Tanto le sembrò gentile e ospitale, quanto il fratello gli era parso arcigno, sospettoso e scorbutico. Donna Consuelo era molto avanti negli anni, ma nonostante contasse già settantacinque anni, appariva ancora vigorosa sia nei movimenti che nella favella; serbava nei lineamenti del viso, nonostante i segni dell’età avanzata, un’antica bellezza, di cui si poteva scorgere ancora qualche riflesso, nel bagliore dei suoi occhi celesti. Al contrario di suo fratello, e a dispetto della sua vecchiaia, sembrava contare su una dentatura quasi perfetta, mentre don Gavino, come aveva denotato il suo pestifero alito, che Giaime suo malgrado aveva dovuto sorbirsi mentre quello, all’inizio, lo investiva dei suoi istintivi e alitosi sospetti, doveva fruire già di qualche protesi, come si notava anche dalle sue difficoltà nel parlare.

«Venite che vi mostro la vostra stanza. Vi manderò poi su la vostra attrezzatura con dell’acqua per rinfrescarvi e vi aspettiamo dabbasso per il pranzo. Così potremo parlare di nostra cugina; e anche di voi se vi farà piacere».

«Grazie donna Consuelo, ma di me non c’è un granché dire», si schermì cortesemente il sedicente inviato di donna Mercedes Palacio, che non voleva però sembrare scontroso. «Scusate ma i miei strumenti sono troppo preziosi e delicati e vanno maneggiati con cura sapiente; sapete, sono strumenti di precisione» aggiunse caricandosi il cannocchiale e il celerimetro, con il resto della copiosa documentazione che si era portato appresso da Cagliari.

«Non vi preoccupate, non ci mancheranno certo gli argomenti di discussione. Avrete saputo sicuramente dell’uccisione del Sostituto Podatario del marchese Da Silva?»

Il messo del Reggente cercò di nascondere il suo vivo interesse. Ma ci pensò lo stesso don Gavino a distogliere l’attenzione della sorella. «Non poteva ammazzare qualcun altro quel benedetto Antoni Pinna? Avevo già concordato con la buonanima di don Josep Mendoza un compenso di sette scudi d’argento per la cerimonia religiosa di infeudamento! E i miei scudi d’argento hanno preso il volo con quel disgraziato!»

«Don Gavino!», lo rimproverò bonariamente donna Consuelo. Era l’unica persona al mondo capace di fare un rimprovero a quel caratteraccio terribile che neanche i diversi vescovi che si erano avvicendati in diocesi erano riusciti a dominare.

«Certo, certo, avete ragione! Réquiem aetérnam dona eis, Dómine», disse il canonico con un gesto appropriato della mano destra.

«Et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace», disse donna Consuelo segnandosi devotamente.

«Amen» concluse Giaime imboccando le scale appresso alla sua ospite.

«Io vado a controllare che tutte le entrate siano chiuse per bene. Di questi tempi non si sa mai».

«Ci vediamo a pranzo» gli disse la sorella con un sorriso per farsi perdonare il rimprovero di prima.

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In ricordo delle foibe

Se trovate in un burrone profondo

uno scheletro legato con il fil di ferro

 a un altro scheletro,

 legato a un altro scheletro

e a un altro ancora,

quello sono io.

Non cercatemi in un fosso qualunque!

Io giaccio

 in quei recessi contorti

che si  chiamano foibe.

Avvolgetemi, ve ne prego,

 in un drappo bianco

E restituitemi ai miei cari,

alla mia Patria e alle cose di Dio.

Non odio nessuno e  perdono tutti.

Solo un’ultima cosa vi chiedo:

aprite gli occhi dei vostri figli

sulla verità!

I Thirsenoisin

Intanto, in preda a queste riflessioni, era giunto in vista al recinto dove Rumisu si apprestava a liberare  le sue greggi per condurle al pascolo. Lo vide, prima anche che sentirlo, raggruppare gli animali, con quei movimenti e quei richiami che un pastore ripete con la solennità che gli proviene dall’innato costume a dominare le greggi, ma senza violenza o malanimo, quasi con amore, come se animali e uomini fossero una sola entità, sacra e da rispettare. Al contrario del fratello,  Rumisu si era da subito dedicato alla cura delle greggi, con tutta l’anima e con tutto se stesso. Avevano sposato due sorelle e sua moglie gli  aveva già dato due figli, un maschio e una femmina.

«Bentornato, padre!» esclamò quando fu a portata di voce.

No, Rumisu non c’entrava per niente in quella brutta storia. Era rimasto sorpreso anche lui per il gesto del fratello. Gli aveva letto ancora  l’incredulità e la sorpresa nel viso, quando Damasu era fuggito via, e lui finalmente, passato

quel drammatico istante, si era reso conto di tutto e si era guardato attorno, per vedere se il pericolo fosse cessato con la fuga del suo mancato assassino.

«Grazie figlio mio. Mi aiuti a scegliere due caprette da immolare agli dei delle acque per richiedere  la guarigione di Elki? Sceglile tra le mie, naturalmente.»

«Se permettete, padre, vorrei sceglierne due delle mie. Voglio offrirle io in sacrificio.»

«Sì, certo! Agli dei piaceranno doppiamente!» assentì con intimo giubilo Itzoccar. «Mandamele con uno dei servi alla residenza dei sacerdoti, giù al pozzo sacro! »

«Sarà fatto!»

«Vienimi a trovare coi tuoi figli quando sarai rientrato dai pascoli!»

«Va bene» rispose Rumisu salutando il padre, che subito si avviò in direzione del pozzo sacro.

La discesa dello Spirito Santo

La sera di quello stesso

Giorno, il primo passato

Il sabato, inserrato

Per timore,  il consesso

Dei discepoli stava,

Dei Giudei, allor quando

Gesù si manifestava

A lor così parlando:

“-Pace a voi” E mostrò

le mani e il  costato.

Come il Padre mi ha mandato

Così vi mando”. Alitò

Gesù, quindi  disse ad essi

Gioiosi e stupefatti

-“ A coloro  cui i  peccati

rimetterete, rimessi

saranno. E non rimessi

a quei cui non li avrete

rimessi.” Di ciò messi

li fece. “ E ricevete

ora lo Spirito Santo”.

Ma avvenne che Tommaso

Del fatto non persuaso,

quando i colleghi vanto

menaron d’aver visto

il Signore Gesù, disse:

-“ Non credo che chi già visse,

viva ancor, se il mio dito

non metto e le ferite

dei Suoi chiodi non vedo”.

Dalle cose riferite,

dopo otto giorni, credo,

ricomparve a porte chiuse

Gesù nello stesso luogo

Con l’autore dello sfogo.

A lui le piaghe dischiuse

Mostrò. Ed egli disse: “Mio

Signore Cristo Gesù

Maestro e amico!   Tu

Sei il Signore mio Dio”!.

-“Beato chi avrà fede” –

diss’Ei – “  non avendo visto

e  pur col cuore crede,

chè avrà la vita in Cristo!”

LA RESURREZIONE DI GESU’

Giovanni! Pietro! Correte!

Gesù L’han portato via

Dal Sepolcro! Conoscete

Voi due ”  gridava Maria

Di Magdala concitata

dove l’abbian portato?”

Corsero a perdifiato

Per la discesa sterrata

I due interpellati.

Arrivò primo Giovanni,

ché lento era di più anni

Pietro. Ma abbandonati

Erano i sacri teli

Che le membra avean strette

E ‘l sudario qual ne’ cieli

Sospeso, vide, e credette,

anche il discente più acerbo,

dopo l’anziano. E intanto

che Maria in gran pianto

si scioglieva, con in serbo

quelle grandi emozioni

a casa rientravano

i due e capivano

infine le narrazioni

delle Scritture, che Egli

doveva risuscitare

dall’oltretomba. Due begli

angeli a domandare

il perché del suo pianto

a Maria, prona verso

la bara, di lino terso

vestiti apparvero. – “Tanto

io piango perché hanno

portato via il mio Signore

e non ho pace al cuore

– rispose ella con affanno –

 “ al non conoscer neanche

dove lo abbiano  posto”- .

Ciò detto le ciglia stanche

Posò su un uomo discosto

Che era Gesù incognìto.

– “Donna, chi piangi e cerchi?”-

le chiese. Di sottecchi,

credendolo di quel sito

lei, così lo supplicò:

-“ Se Lo hai portato via tu,

il mio Signore Gesù,

dimmelo; io stessa andrò

a prenderLo”. Il Suo rostro

mostrando Egli le disse

-“ Salgo al Padre mio e vostro.

Dillo, che pria che salisse

Gesù ai Suoi fratelli

Per te lo ha inteso dir!”

Dopo aver detto : “Rabbunì!”

Ella andò a dirlo a quelli.

Ma cos’è la Verità?

Gesù da Pilato1

XVIII

GESU’ ARRESTATO E CONDOTTO DA PILATO

Detto ciò Gesù se n’andò

In un orto coi discenti

Ove Giuda il traditor

Con uomini e armamenti

Lo raggiunse. “Chi cercate?”

Gli chiese edotto Il Cristo.

Quei, che mai l’avean visto,

con le facce illuminate

da lanterne e da torce

risposero non di meno

-“Cerchiam Gesù Nazareno”

  • Son Io” diss’Ei due volte!

Se cercate me” riprese

lasciate che ognun vada”.

Ma Pietro il braccio tese

E tratta fuor la spada

L’orecchio ebbe tagliato

il servo Malco. Ma Gesù

Gli disse – “Non farlo più,

  Abbà il vino m’ha dato”!

Così lo afferrarono

Come ad un malfattore

E in men d’un paio d’ore

Da Anna lo portarono.

Ei della Sua dottrina

Chiese. E Gesù rispose:

Sotto la luce albina

predicato ho tali cose

 

e chiunque m’ha ascoltato;

chiedi loro un resoconto”!

Ma uno sbirro più tonto

Degl’altri, dopo aver dato

A Cristo Gesù uno schiaffo

Disse: -“Tal non è ‘l tenore

Che col tuo superiore

Puoi utilizzare a sbafo!”

-“Perché dunque m’hai percosso?

S’ho detto male mostralo,

perché dire non posso

sennò?” chiese a quel crotalo.

A Caïfa, ciò udito

Lo spedì così legato.

Frattanto Pietro era stato

Pauroso e infreddolito

Nel cortile ove un fuoco

Riuniva guardie e serve;

una fra le più proterve

gli chiese dopo un poco

-“Sei anche tu di quest’uomo?”

  • Non lo sono!” disse Pietro.
  • Tu sei di quelli di Gesù?!”

chiese un altro non domo.

Ei negò reticente,

stringendosi al mantello.

Ma uno ch’era fratello

Di quello che il fendente

Di Pietro avea subìto

Nel Giardino degli Ulivi

Disse: “Se gli occhi privi

Non ho, io ti ho già  visto

Nel giardino”. Ma lui negò,

 tre volte, come predetto.

Subito il gallo cantò,

e ‘l gelo gl’entrò in petto!

Lo portarono allora

Al Pretorio da Pilato

Perché l’avete portato?”

chiese a quei ch’erano fora

per la Pasqua. –“Se non fosse

un malfattor non sarìa qui!”

risposero quelli lì.

A voi giudicar le mosse

 

Sue, ed anche  la Sua sorte”

Ribattè Ponzio Pilato.

-“Noi non possiam dar morte”

fu detto e profetato.

Quindi il procuratore

fece chiamare  Gesù

-“ Dunque Re dei Giudei sei Tu?”

Gli rispose Il Signore:

-“Lo sai o te l’han detto?”

  • “ Per cosa la Tua gente

Ti consegna a un non credente

Che su Te metta verdetto?”

-“Se tutti i servitori miei

avessero combattuto

perché non fossi dei Giudei

io non sarei caduto

 

in tal guisa. Ma il mio Regno

è alieno, non di quaggiù!”

Disse a Pilato Gesù.

-“Dunque sei del trono degno?”

disse Pilato. Rispose

Gesù: – “ Son Re, l’hai detto.

Io non nacqui per diletto

Ma per fare due cose:

Vivere da testimone

Della Verità; morire

Per la Resurrezione!”

Avanti di proseguire

Pilato ancor gli chiese

-“Ma cos’è la Verità?”

Poi uscì e disse:-“ V’è tra

Le usanze del paese

 

Per Pasqua di liberare

Per voi un delinquente;

Gesù parmi innocente,

lo devo perciò salvare?”

Ma quella feccia di viltà

Gridava delirante

NO! Salviamo Barrabàn!!”

Barrabàn era un brigante.

Quindi Pilato, poiché

Il popolo insisteva

Fece flagellare il Re,

Gesù, pur se non vedeva

In Lui colpa o reato;

le guardie, dopo il flagello

gli misero un mantello

rosso; poi incoronato

a mò di scherno e dolore

con spine pungenti in testa

a Suo danno fecer festa.

Ma uscì il Procuratore

A ridirne l’innocenza;

e contemporaneamente

Anche Gesù, mestamente,

in guisa di indecenza

con corona e mantello;

-“Ecce homo” disse loro

Pilato. Ma con disdoro

Ripeterono l’appello

quegli scalmanati Ebrei:

-“Crocifiggilo Pilato,

perché uguale a Dio s’è fatto!”

  • Ma Gesù, di dove sei?”

chiese Pilato rientrando;

ma Gesù non gli rispose.

-“ Non parli? Pur valutando

il poter che ho sulle cose?”

Gesù a sua volta rispose:

-“Poter non avresti alcuno

se in alto non fosse Uno

che dà  tutte le cose.

 

Perciò ha più grande colpa

Chi a te m’ha consegnato”.

Da quel momento Pilato

Tentava ogni discolpa

Per Gesù. Ancora i Giudei

Gridavano “Se assolvi

Gesù, amico non sei,

di Cesare. Chi si provi

 

ad essere, re, infatti

si mette contro l’impero”.

Dopo questo impropèro

Pilato studiò i fatti

Organizzando fuori

In veste di magistrato

Un Tribunale. Ciò fatto,

di calmarne i furori

tentò ancora una volta.

-“ Ecco il vostro re” gridò.

In coro la massa stolta

Ancora la realtà negò

Chiedendo la Sua morte

In coro : -“Mettilo in croce”

Gridavano a gran voce.

E  lasciollo alla Sua sorte.

Il dio Epicuro

Da tempo immemore l’uomo va cercando le ragioni della sua esistenza e delle sofferenze ad essa connesse.

Nel  quinto libro del suo capolavoro “De Rerum Natura” Lucrezio elogia Epicuro per il suo sforzo di eliminare la religione dalla vita di ogni uomo (e con essa forse anche le sofferenze).

Quando ero giovane ero convinto che la religione fosse uno strumento in mano dei preti per controllare e condizionare la vita e la mente del popolo;  esattamente ciò che Epicuro sosteneva sin dal III Millennio a.C. con le sue teorie, poi riprese da Lucrezio in “De Rerum Natura”.

Secondo queste teorie l’uomo deve perseguire la sua felicità prescindendo da qualsiasi religione, fede o dio;  e ciò egli deve fare innanzitutto vincendo la paura della morte; d’altronde, chiosava il pensatore greco, la morte non ci riguarda: quando siamo in vita, essa non c’è; quando essa c’è (e cioè noi saremo morti) non ci renderemo conto di esserlo.

Dalla paura della morte, secondo Epicuro, dipendono tutti i nostri condizionamenti.

Secondo Epicuro Dio non esiste affatto.

Poi, in età più avanzata, ho incontrato la fede nell’Unico Dio;  e l’ho trovata attraverso le parole, l’esempio, gli insegnamenti di suo figlio, Gesù Cristo, che discese in terra nei panni di un uomo il cui ricordo ancora commuove e fa riflettere le genti.

Lo so che la mia fede non è una risposta razionale ai pensatori come Epicuro e come Lucrezio; la fede è una ricerca di ragioni: le ragioni per cui vivere, i motivi delle nostre sofferenze, i perché di tante cose;

D’altro canto, se è vero come vero che  Epicuro e tanti altri filosofi greci possono essere considerati degli illuministi ante litteram, allora le risposte alle loro profonde riflessioni le hanno date tanti teologi prima e meglio di me (ma qui non è certo la sede adatta per affrontare simili, ardui ragionamenti).

E neppure voglio diminuire la grandezza del loro pensiero: ho profondo rispetto per i loro sforzi, le loro teorie, gli sforzi intellettuali da loro affrontati per dare delle risposte ai dubbi del pensiero umano; soltanto che non posso condividerli alla luce di Dio.

Non va neppure sottaciuto che probabilmente il pensiero occidentale non avrebbe raggiunto le vette alle quali è pervenuto, ivi compresa quella di accettare la presenza di Dio, senza doverGli attribuire necessariamente le nefandezze dell’umano umano (guerre, egoismo, sfruttamento, inquinamento e quant’altro), senza il grande pensiero dei pensatori  della cultura greco-romana.

Angelo Ruggeri, un brillante studioso dei testi classici, ed in particolare degli autori latini ed italiani, nella sua analisi del pensiero di Lucrezio,  sottolinea l’inutilità delle teorie di Epicuro con riguardo alle sofferenze che l’uomo, in quanto tale, è condannato a patire (sia che creda in Dio, sia che non ci creda).

Come scrive acutamente lo stesso  scrittore Angelo Ruggeri: ” In realtà quasi tutti vorrebbero vivere come Epicuro consiglia perché i suoi precetti sembrano condurre alla felicità, però non lo fanno in primo luogo perché la vita presenta mille difficoltà e mille  dolori che non è nei poteri dell’individuo evitare. Sulla paura delle morte che Epicuro pretende di allontanare col semplice ragionamento:  quando essa c’è non ci siamo noi, l’errore colossale sta nel fatto che gli uomini non temono tanto ciò che possono incontrare nell’aldilà,  quanto temono il nulla, l’annientamento.”

 Propongo per concludere (ameno per adesso) i versi 1-51 del Libro V. Chi ne volesse la traduzione, a cura di Angelo Ruggeri, può andare nel mio blog in lingua inglese attraverso il link in calce al presente post.

In lode di  Epicuro di Lucrezio Caro

Libro V, VV 1-51

 

Chi può con mente possente comporre un canto

degno della maestà delle cose e di queste scoperte?

O chi vale con la parola tanto da poter foggiare

lodi che siano all’altezza dei meriti di colui

che ci lasciò tali doni, creati dalla sua mente?

Nessuno, io credo, fra i nati da corpo mortale.

Infatti, se si deve parlare come richiede la nota

maestà delle cose, un dio fu, un dio, o nobile Memmio,

colui che primo scoperse quella regola di vita

che ora è chiamata sapienza, e con la scienza

portò la vita da flutti così grandi e dal buio immemore

in tanta tranquillità e in tanto chiara luce.

Confronta, infatti, le divine scoperte che altri fecero in passato.

E in effetti si narra che Cerere le messi e Bacco la bevanda

prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;

eppure la vita avrebbe potuto essere senza queste cose,

come è noto che alcune genti vivano tuttora.

Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;

quindi a maggior ragione ci appare un dio questi

per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,

le dolci consolazioni della vita placano gli animi.

E se crederai che le gesta di Ercole siano superiori,

andrai assailontano dalla verità.

Quale danno, infatti, a noi ora potrebbero recare le grandi

fauci del leone nemeo e l’ispido cinghiale d’Arcadia?

E ancora, che potrebbero fare il toro di Creta e il flagello

di Lerna, l’idra cinta di un groviglio  di velenosi serpenti?

Che mai, coi suoi tre petti, la forza del triplice Gerione

tanto danno farebbero a noi gli uccelli  del lago›

di Stinfalo e i cavalli del tracio Diomede che dalle froge

spiravano fuoco, presso le contrade bistonie e l’Ismaro?

E il guardiano delle auree fulgide mele delle Esperidi,

il feroce serpente, che torvo guatava, con l’immane corpo

avvolto intorno al tronco dell’albero, che danno alfine farebbe,

lì, presso il lido di Atlante e le severe distese del mare,

dove nessuno di noi si spinge, né alcun barbaro s’avventura?

E tutti gli altri mostri di questo genere che furono sterminati,

se non fossero stati vinti, in che, di grazia, nocerebbero vivi?

In nulla, io credo: a tal punto la terra tuttora

pullula di fiere a sazietà, ed è piena di trepido terrore,

per boschi e monti grandi e selve profonde;

luoghi che per lo più è in nostro potere evitare.

Ma, se non è purificato l’animo, in quali battaglie

e pericoli dobbiamo allora a malincuore inoltrarci!

Che acuti assilli di desiderio allora dilaniano

l’uomo angosciato e, insieme, che timori!

E la superbia, la sordida avarizia e l’insolenza?

Quali rovine producono! E il lusso e la pigrizia?

L’uomo, dunque, che ha soggiogato tutti questi mali

e li ha scacciati dall’animo coi detti, non con le armi,

non converrà stimarlo degno d’essere annoverato fra gli dèi?

 

Per la versione in lingua inglese di Angelo Ruggeri clicca il link sottostante

http://poetryandmore-albixforpoetry.blogspot.it/2013/08/titus-lucretius-carus-ii.html

Salmo del Giorno

XVI

Secondo diritto e giustizia ho agito;
non abbandonarmi ai miei oppressori.
Dona ogni  bene  a chi Ti ha obbedito;
gli occhi nell’attesa dei salvatori
son consunti. Secondo l’infinito
Tuo amore agisci contro i violatori
Della Tua legge e mettili alla gogna!
Detesto ogni sentiero di menzogna!

La vita di Giuseppe Garibaldi – 8

 La dimensione europea che Garibaldi aveva raggiunto nella sua vita si esprime anche in un impegno massonico totale e sincero. Giuseppe Garibaldi, Gran Maestro di quasi tutte le convinzioni italiane, iniziò a frequentare la Massoneria e divenne la figura di laico e anticlericale più illustre d’Italia. In questo egli era veramente il massone numero uno in Italia e non solo: un forte sostenitore di ideali massonici europei e universali.

Questo è il motivo possiamo dire che Garibaldi è un figlio del suo tempo: gli ideali dei Lumi, il respiro rivoluzionario, i segreti napoleonici di massoneria, i desideri di  libertà e indenpendenza dei popoli nel mondo, l’anticlericalismo, le istanze liberali costituiscono la sua  lotta serrata a favore di coloro che cercano la libertà!

Garibaldi si insediò a Rio de Janeiro, ospite della piccola comunità di esuli italiani emigrati. Con uno di questi amici, il signor Rossetti, ha avviato un’attività  commerciale, ma i due non sono fatti per il commercio e per il mondo degli affari.
Durante questo periodo, decide di diffondere i sentimenti rivoluzionari tra i suoi connazionali e resta in contatto con gli attivisti in Europa di Mazzini e con i suoi corrispondenti  Antonio Ghiglione e Luigi Canessa.

Garibaldi divenne presidente della cellula locale della  Giovine Italia nel continente sudamericano. Aderisce anche alla loggia massonica di Vertud.

Certamente il nostro eroe è un uomo intelligente, ma non ama molto gli intrighi  della politica e i rituali delle logge massoniche: un uomo di azione come Lui non può amare  i dibattiti eil  tempo  dell’evanescenza! Egli è nato per l’azione che segue il pensiero, non per  il pensiero seguito da un altro pensiero e da un altro pensiero ancora all’infinito!

In ogni caso, la sua intenzione è quella di continuare a vivere grandi  avventure anche  in America.

Dopo il settembre 1835, proclamata la Repubblica Riograndense (1836) da Bento Gonçalves da Silva , Garibaldi si dichiara pronto a lottare per gli ideali  umanitari.

Nel maggio 1837, riceve una lettera di patente marittima  da parte del governo di Rio Grande do Sul, che si sta ribellando contro l’autorità dell’Impero del Brasile.

Sfida un impero con la sua barca di nome Mazzini.

L’11 aprile 1838,  respinge un battaglione  brasiliano imperiale (Battaglia di Galpon Xarqueada) e impedisce al  generale Davi Canabarro di prendere il porto di Laguna, capitale della provincia di Santa Caterina (25 luglio 1839); ciò  che facilita la creazione della Repubblica Catarinense Juliana, ma i repubblicani riappaiono sulle alture dove le battaglie si svolgono con alterne fortune di entrambe le parti.

 Garibaldi è  coinvolto per la prima volta in un combattimento esclusivamente terrestre, vicino Forquillas: attacca con i suoi marinai, che fanno arretrare i  nemici.

Durante questo periodo, egli  si invaghisce, contraccambiato, di Manuela Ferreira de Paula, nipote di Bento Gonçalves da Silva, alla quale  rinuncia a causa della differenza di status sociale.

Nel 1839, quando si trova a Laguna, incontra Ana Maria de Jesus Ribeiro, di appena 18 anni. Una storia d’amore nasce tra i due giovani, anche se Anita è già sposata con Manuel de Aguiar Durante. Lo lascia per  seguire Giuseppe: i due si  sposeranno nel 1842 dopo la morte del marito di Anita.

Nel 1841, non vedendo una rapida conclusione della guerra, e su richiesta di Francesco Anzani, un esule lombardo con il quale diventa amico e che vuole la sua presenza in Uruguay, Garibaldi si congeda con il permesso di Gonçalves, per trasferirsi a Montevideo dove sono attivi  molti stranieri, soprattutto francesi e italiani.

Lì, la guerra tra il presidente uruguayano Manuel Oribe, che è stato rovesciato, ma è sostenuto dal governo di Buenos Aires di Juan Manuel de Rosas, e il nuovo governo guidato dal generale Fructuoso Rivera che ha   il sostegno di Brasile, delle flotte francesi e inglesi, e dell’Argentina “unitaria” (Partido Unitario di liberale).

Dichiarata nel dicembre del 1838, la guerra è  chiamata Grande Guerra 1839-1851.

A Montevideo, Garibaldi insegna matematica.

La flotta della Confederazione argentina opera sotto il comando dell’ammiraglio William Brown di origine inglese, mentre Montevideo è sotto il comando del commodoro John Coe di origine americana.

Il governo di Montevideo chiama Garibaldi.

Presso il  Río de la Plata, la Marina argentina cerca di bloccare il porto di Montevideo. Il 16 Agosto 1842 una battaglia navale  svolge sul fiume Paraná, vicino alla città della Costa Brava. Le navi comandate da Garibaldi combattono contro le forze e i  mezzi di Brown,  il quale ha  navi e uomini nettamente  superiori. Dopo aver subito pesanti perdite, Garibaldi dà fuoco alle sue navi per impedire che cadano nelle mani di Brown; riesce così  a farla franca, salvandosi  con i sopravvissuti.

Come già detto, lo stesso anno 1842, Garibaldi sposa Ana Maria de Jesus Ribeiro, dalla quale avrà quattro figli: Domenico, Ricciotti e  Menotti; mentre Rosita  muore in tenera età.

Garibaldi è diviso tra le operazioni di terra e di mare, si ricostruisce una flottiglia a capo della quale è riuscito nel mese di aprile 1842, ad evitare che le navi Brown riescano nell’obiettivo di  occupare la Isla de Ratas, nella baia di Montevideo.

Nel mese di aprile 1843, poi torna a Montevideo dove  Garibaldi riesce ad organizzare e dirigere un gruppo di volontari chiamato Legion Italiana (legione italiana), che è al servizio del governo di Montevideo, il Gobierno de la Defensa (Governo della Difesa). Questi uomini inesperti, combattono la loro  prima battaglia in occasione del ” Combate de Tres Cruces” il 17 novembre 1843, nei pressi di Montevideo.

Gran parte dei combattenti è di origine straniera, soprattutto francesi (2500 uomini)  e italiani (da 500 a 700 uomini):  su 6.500 soltanto 800 sono uruguaiani.

La Legione italiana formata da  Garibaldi adotta  la camicia rossa,originariamente in uso dei lavoratori tessili destinati ai mattatoi argentini.

Questa maglia rossa è un elemento essenziale del mito di Garibaldi, ma dobbiamo ricordare anche il cappello e il poncho gaucho della pampa.

I suoi legami con le logge massoniche gli valgono, nel 1844, l’ammissione agli “Amici della Patria”, che dipendono dal Grande Oriente di Francia.

Per difendere gli interessi dei loro cittadini, i francesi e gli inglesi chiedono agli argentini di ritirare e , di fronte al loro rifiuto,  bloccano  la flotta argentina. Brown, sconfitto,  torna alla vita civile. I rapporti tra le nazioni si inaspriscono, consentendo a  Montevideo, con il sostegno dei suoi alleati, di allentare la morsa del blocco.

Nel mese di aprile 1845,  Garibaldi si imbarca in una nuova flotta di 20 navi e circa 900 uomini, gli Alleati sbarcano e riescono ad occupare e saccheggiare Colonia del Sacramento con la partecipazione di squadre francesi e inglesi.

L’8 febbraio 1846, nell territorio di Salto, nei pressi del fiume San Antonio, un affluente del fiume Uruguay, Garibaldi e la sua legione italiana vincono la Battaglia di San Antonio contro le forze superiori della Confederazione, alla quale  infliggono pesanti perdite, sbaragliandola  dopo aver perso circa un terzo della propria forza d’urto.

Le implicazioni di questa vittoria sono immense, he varrà ai vincitori  lo status di eroi;  la  fama di Giuseppe Garibaldi diviene internazionale e la stampa italiana racconta le sue imprese agli entusiasti lettori.

Egli rinuncia a fama e denaro, alle terre che  Gonçalvo Bento gli ha promesso, desideroso  di vedere cosa lo attende al di là dell’oceano.

Lascia così il  certo per l’incerto, la sicurezza per l’avventura, gli agi per  i disagi!

Lasciando l’America sulla barca Esperance,  Garibaldi è preso da una febbre spirituale, ansioso per l’Italia,  ancora dominata da stranieri e divisa, come abbiamo già descritto. I suoi pensieri, le sue emozioni durante quel viaggio, mi fanno  ripensare alle immortali  parole che Dante ha messo in bocca a Ulisse nel Canto 23 dell’ Inferno:

” Compagni, che siete arrivati nei mari d’Occidente, dopo avere sfidato molti pericoli, e che avete, come me, poco tempo da vivere ancora, non rifiutate di  camminare incontro al sole, per avere  la soddisfazione di vedere i nobili abitanti dell’altro emisfero! Considerate la vostra umana essenza : fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza “

Il 23 giugno 1848, dopo 14 anni di assenza, Garibaldi sbarca a Nizza con i suoi compagni, la guerra è già cominciata;   ha lasciato Nizza per  Genova con 150 volontari. Garibaldi, la cui fama ha preceduto il suo arrivo, offre la sua spada al re di Sardegna, pur  ripetendo che è un repubblicano, ansioso soltanto, in quella contingenza,  di cacciare l’austriaco; anche se Carlo Alberto è contestato dai democratici, che lo sospettano di voler annettere Milano e i milanesi, e di non essersi impegnato abbastanza per cacciare gli austriaci.

…continua…

Salmo del Giorno

Salmo 107
Esaltazione di Dio

Saldo è il mio cuore, Dio, saldo è il mio cuore;
voglio cantare gli inni, anima mia.
Ti loderò tra i popoli, Signore;
a Te, Dio,  canterò per ogni etnia.
E’ grande quanto il celeste chiarore!
La Tua bontà  alle nubi ci rinvia;
Innalzati, Dio, sopra tutti  i cieli!
Sulla terra la Tua gloria disveli!