I Nuovi Baroni – 5

Capitolo Quinto

Antoni Pinna era un bel giovane dal fisico prestante. Sua madre, Mariuccia Pinna, aveva svolto servizio di domestica nella casa di don Gavino Palacio per parecchi anni, finché non si era trovata incinta. Per evitare di dare scandalo e di far chiacchierare la gente, era stata allontanata dalla casa del rettore da Donna Consuelo, che non era riuscita a farsi dire dalla serva chi fosse il padre di quella creatura che le cresceva in grembo.

I due fratelli non si erano però disinteressati delle sorti della sfortunata ragazza. Le avevano trovato un alloggio in periferia, nella zona di Sparagallu e le avevano permesso di continuare a lavorare, anche dopo la nascita del figlio, ma senza mai più permetterle di entrare in casa. Don Gavino si era mostrato comprensivo e addirittura si era offerto di insegnare al bambino, appena fu in età, i rudimenti della scrittura e della dottrina.

 Ma come la gente aveva ripreso a sparlare, donna Consuelo aveva suggerito al fratello che ponesse fine a quei generosi insegnamenti. Antoni, tuttavia, grazie alla sua precoce e viva intelligenza, aveva presto imparato a leggere e a scrivere, seppure limitatamente a testi molto semplici ed elementari. Crescendo era venuto su bene nel fisico e male nel carattere, introverso e aggressivo, a causa di quella sua condizione di bastardo che la malignità dei villani compaesani, non aveva mancato di stigmatizzare sin da quando era entrato in contatto, per le diverse occasioni, con loro.

 Divenuto più grande si era accapigliato con più d’una persona, malmenandola di santa ragione, per avere accennato a quella sua disgraziata condizione. Così la gente aveva preso a temerlo e si era limitata a parlargli alle spalle, senza più osare insultarlo apertamente.

 Fisicamente aveva preso tutto dalla mamma: il fisico asciutto e slanciato, la bellezza del viso, con la fronte ampia, le labbra carnose, un naso lievemente aquilino e gli zigomi pronunciati.

Niente che potesse comunque ricondurre al misterioso padre, di cui Mariuccia, si diceva, avesse soltanto parlato in confessione, visto che aveva ripreso a frequentare la chiesa e i sacramenti, pentita dell’errore commesso e disponibile a ravvedersi per il futuro, come aveva spiegato don Gavino alla sorella.

Divenuto uomo don Gavino lo aveva raccomandato a Carlo Emanuele Pistis, l’attuale sindaco in carica, perché lo prendesse a lavorare con sé e il printzipale, per farsi alleato con il potente e scorbutico rettore, lo aveva inserito nella Compagnia dei Barracelli, il corpo armato adibito alla difesa delle campagne e degli allevamenti, dalle troppo frequenti ruberie e grassazioni.

Era lì aveva perfezionato la sua abilità con il fucile, una passione che aveva manifestato sin da ragazzo. Nei servizi prestati in favore della compagnia barracellare girava sempre con il fucile carico, pronto a sparare. Ecco perché, quando aveva sentito quell’esagitato sostituto podatario, inveire dal ballatoio della Casa Forte, contro di lui, con quelle parole offensive nei confronti della madre, non c’aveva visto più e gli aveva sparato. A mente fredda si era poi pentito. Poteva anche darsi che quel vecchio non ce l’avesse proprio con sua madre, ma la parola offensiva, urlata a viva voce, davanti a tutti, in quel momento, gli aveva suggerito quel gesto vendicativo e riparatore.

Inizialmente si era rifugiato nel convento di Santa Greca, a Decimomannu, ma qualcuno gli aveva fatto sapere che gli uomini del marchese lo cercavano in tutti i conventi, pronti a irrompere con la forza, in dispregio del diritto di asilo di cui ancora godevano, invero in maniera residuale e con forza decrescente, quelle istituzioni religiose conventuali, decisi a vendicare la morte del Sostituto Podatario Josep Mendoza che lui aveva causato.

 Allora aveva preso il proponimento di darsi definitivamente alla macchia. Conosceva bene la campagna di Villa Sor e i villaggi abbandonati pullulavano di rifugi e di risorse naturali, sufficienti al suo sostentamento quotidiano. Aveva stabilito un contatto con sua madre che non mancava di fargli avere, quando possibile, dei panni puliti e qualcosa di caldo da mangiare, anche se lui non mancava di arrostirsi, all’aperto, le prede che riusciva a catturare nel fiume con le sue nasse e, in terra, con il suo fucile.

 La cosa che gli pesava di più, in realtà, era la mancanza della ragazza di cui si era innamorato e che, seppure segretamente, ricambiava in pieno il suo sentimento. Doveva assolutamente farle sapere che lui la stimava ancora e voleva spiegarle i motivi per cui aveva sparato a quell’odioso forestiero e che si era comunque pentito di quel che aveva fatto. Quella era adesso la sua primaria, unica e vera preoccupazione. Il resto lo avrebbe affrontato di buon grado; ma a quell’amore non avrebbe saputo e non voleva assolutamente rinunciare.

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Concerto Furioso Andante

Capitolo Primo

La notte prima della sua partenza per Castelnuovo di Garfagnana, Messer Matteo aveva sognato di trovarsi in sella a un cavallo scalmanato. Nel sogno lui si sentiva un marinaio veneziano ma si era deciso a cavalcarlo per compiacere il facoltoso donatore di quel meraviglioso quadrupede. Così, nel tirare all’indietro le redini del destriero, pensava piuttosto di manovrare il timone di una imbarcazione; ma la paura e l’insicurezza gli facevano stringere i piedi speronati sui fianchi del povero cavallo. Col risultato che la sua cavalcatura non sapeva se ubbidire al comando sulle redini, che gli imponeva di fermarsi, oppure assecondare il morso dello sprone, lanciandosi in avanti. Il risultato di questi suoi comandi schizofrenici fu di ritrovarsi sbalzato a terra, mesto e dolorante.

Il malumore e gli interrogativi che quel sogno gli avevano procurato persistevano ancora quando, dopo cinque ore di viaggio, si fermò alla stazione di posta di Pavullo nel Frignano, per la prevista pausa del pranzo.

Cosa rappresentava quel cavallo infuriato? E perché lui, da sempre avversario di Venezia, si figurava un marinaio veneziano in quello strano sogno? E chi era mai quel facoltoso donatore?

A questi interrogativi se ne aggiungevano degli altri che riguardavano il suo incarico di commissario in Garfagnana per conto del duca Ferrante d’Este.

Non aveva avuto il coraggio di negarsi a quell’incarico, non volendo correre il rischio di rompere anche con lui, dopo che i rapporti con il cardinale Martino, fratello del duca, si erano guastati da tempo. Ed era pur vero che per quell’incarico non si sentiva tagliato, ma proprio per questo voleva mettersi alla prova e misurarsi con qualcosa di nuovo e di diverso che dimostrasse a se stesso e agli altri che lui non era soltanto un uomo di lettere e di pensiero.

Ma quello che lo faceva soffrire di più era che partendo, sarebbe stato lontano dalla sua amata Lucrezia.  E a giustificarsi per questo motivo c’era inoltre rischio che venisse canzonato, lui, quasi cinquantenne, mostrandosi in preda agli afrori amorosi, come un giovinetto di primo pelo; senza contare che il disvelamento di quella intima relazione amorosa gli sarebbe potuta costare la titolarità dei privilegi ecclesiastici di cui godeva come chierico. E come avrebbe provveduto, in tal caso, ai suoi nove fratelli e, in particolare, alle sue cinque sorelle, tutte in procinto di maritarsi e bisognose di una congrua dote?  L’onere di provvedervi spettava a lui, in quanto primogenito, dopo la morte di suo padre.

A ben vedere la vera molla che lo aveva spinto ad accettare quell’importante incarico, non era stato  il vile danaro. Certo, lui da quell’incarico di commissario sperava di ricavarne un gruzzolo che gli avrebbe consentito di costruirsi una casetta tutta sua, dove ritirarsi a coltivare i suoi studi e la sua passione per la scrittura e la letteratura.

E però, dietro quella sua scelta, pur sofferta e contrastata, c’era anche il suo profondo desiderio di giustizia. Conosceva infatti di fama quanto fosse pericolosa quella regione, abitata da uomini rozzi e indisciplinati e infestata da numerose bande armate di fuorilegge. Voleva appagare la sua sete di giustizia, riportando l’ordine e la legalità in quel territorio che lui sapeva devastato dalle scorribande di ribaldi e assassini, preda delle sopraffazioni e delle ingiustizie di individui prepotenti e di intere famiglie che si ponevano al di fuori e al di sopra della legge e dell’ordine costituito.

Non di meno intuiva bene che quella missione non era scevra da pericoli per la sua stessa incolumità; a incominciare proprio dal viaggio.

C’era persino stato due volte in precedenza, e in entrambe le occasioni era rimasto colpito dalle asperità di quel territorio, accidentato e quasi inaccessibile, tutto anfratti e dirupi.

Al momento di formalizzare l’accettazione del suo incarico il duca lo aveva ampiamente rassicurato sugli strumenti e sulle forze necessarie a combattere il malaffare e le ingiustizie di quella travagliata e remota provincia ducale.

Ma come mai, invece, il duca non gli aveva dato neppure una misera scorta armata? E chi avrebbe provveduto a difenderlo in caso di un assalto da parte dei numerosi banditi che infestavano la zona?

Fu mentre il suo convoglio stava per lasciare il Frignano e la Vicaria di Camporeggiano, poco dopo Rodea, e poco prima di entrare nel territorio della sua futura giurisdizione, che le sue paure sembrarono prendere improvvisamente corpo. Udì uno scalpitio e delle urla forsennate dietro di lui. I suoi accompagnatori lo interrogarono con uno sguardo atterrito. Il suo sangue freddo ebbe però il sopravvento e ordinò al cocchiere di fermarsi.

«Messer Matteo da Scandiano?» – gli chiese un cavaliere con una faccia patibolare, chinandosi verso la carrozza. Messer Matteo notò che il cavaliere era solo. Forse i suoi accoliti si erano nascosti in attesa di ordini.

«In carne e ossa! Cosa c’è? Cosa volete?» – rispose Messer Matteo con voce ferma, simulando una sicurezza che in quel momento non provava.

«Voi non mi conoscete. Sono Pierino Pacchioni, uno dei luogotenenti di Domenico Marotto dei Carpineti per servirla e volevo scusarmi di non averla omaggiata al suo ingresso nelle nostre terre. Son qui per rimediare!» – rispose quello con enfasi levandosi il cappello piumato che gli ricopriva il capo.

Messer Matteo sorrise in segno di ringraziamento. Non poté fare a meno di pensare che anche quelle terre erano del duca e che in sua vece le governava il commissario ducale Cesare Cattaneo e che comunque quelle non erano le terre dei Carpineti ma casomai dei Montecuccoli; tuttavia non reputò opportuno manifestare queste sue contrarietà ma si limitò a ringraziare, sorridendo ancora, imitato dai suoi accompagnatori che avevano addosso più timori di lui.

«Servo vostro!» – disse il bandito accommiatandosi.

Quando furono abbastanza lontani il vice notaio camerale Boschetti, che il duca gli aveva voluto affiancare per la sovrintendenza sui  registri dei tributi, dei censi e dei livelli del commissariato, ripresosi dallo spavento farfugliò  qualcosa sui Carpineti, dicendo che lui li sapeva sul libro paga del papa Leone X. Ragionarono  per un po’ sulle fazioni e sulle lotte che caratterizzavano quei turbolenti territori e delle difficoltà, non certo ignote, di affermare la giurisdizione del loro duca, se non con l’indispensabile appoggio delle milizie stanziali.

Si chiesero inoltre che senso potesse avere quell’omaggio che comunque, se non proprio sinistro, suonava quantomeno ambiguo. Era forse una minaccia velata? Un avvertimento che dichiarava la loro presenza nel territorio? Oppure una richiesta di tregua?

Nessuno poteva avere delle risposte certe; né il vice notaio camerale, né il suo segretario personale, il camerlengo Zoboli.

Quel che era certo, anche se i nuovi emissari del duca non potevano saperlo, è che le bande rivali dei Carpineti e di Cato di Castagneto, pur avendo la base operativa nei pressi di Pavullo in Frignano, operavano con i loro uomini anche nel territorio confinante della Garfagnana, e avevano i loro uomini sparsi in tutto il territorio, sino all’estremo limite di  Castelnuovo, il capoluogo dov’era diretto Matteo da Scandiano, ove si ergeva, imponente e maestosa, la roccaforte degli Estensi, da tutti ritenuta, sino a quel momento storico, inespugnabile.

E non potevano neppure sapere che stavano maturando, da parte dei mandanti di tutte le forze in campo, dei progetti così complessi e grandiosi, che andavano ben al di là della loro personale incolumità

Intanto la carrozza si era spinta dentro la Garfagnana, lasciandosi alle spalle il Frignano.  Dopo i commenti su quell’incontro pericoloso e misterioso allo stesso tempo, la stanchezza del viaggio ebbe il sopravvento su tutti loro. E subentrò il rilassamento che sempre consegue, tanto più dopo uno scampato pericolo, al volgere di un impegnativo viaggio.

E gli affannati pensieri li accompagnarono sino a notte fonda, quando, dopo oltre dieci ore di viaggio, da quando erano partiti da Ferrara, giunsero a Castelnuovo.

Messer Matteo si sentiva sfibrato nel corpo e nello spirito ma per fortuna era giunto incolume a destinazione.

I Nuovi Baroni – 3

Capitolo Terzo

«Eccovi trenta scudi per il canonico maggiore e altri venti per voi. Con i primi predisporrete l’animo di quel vecchio taccagno in sottana, alla migliore ospitalità nei confronti vostri, mentre coi secondi gestirete il vostro viaggio e il vostro soggiorno nella Villa, procurando di aprire la borsa per pagare le informazioni più corrette da raccogliere, vagliare e trasmettere direttamente a me. Avete delle domande? Pensate di avere bene inteso i vostri compiti?»

Giaime Cossu intascò le due borse, riponendole al sicuro in una tasca interna della sua giacca.

«Sono un poco in ansia per questi preziosi strumenti che mi state assegnando. Non sono neppure tanto sicuro di saperli utilizzare».

«Non fate il modesto. Non avrete fatto misurazioni ai corsi della Scuola Superiore di Statistica?»

«Sì, forse, ma son passati troppi anni per ricordare. E comunque si sarà trattato più che altro di misurazioni finalizzate ad estrapolare delle grandezze come esercizio teorico».

«E che problema c’è? Adesso passerete alla pratica sul campo».

«Ma è la proiezione cartografica a preoccuparmi. Come riporterò le mie misurazioni angolari sulla carta?»

«È più semplice di quanto non sembri. Intanto portatevi appresso queste vecchie planimetrie dell’Archivio Reale: sono state realizzate dai censori agrari e abbastanza fedelmente riportano quei terreni. Poi chiedete in giro i nomi dei vari appezzamenti e riportateli sulla carta insieme a delle misurazioni e ai rilievi angolari. Se qualcuno controllasse per errore o per malizia le vostre carte, troverebbe che avete comunque tracciato delle mappe. D’altronde chi sarebbe in grado di smentirvi nell’uso degli strumenti che vi state portando appresso? Volete scommettere che in Villa Sor non c’è una sola persona capace di dare un nome a questi strumenti?»

«Quindi, riepilogando, cosa mi state consegnando da portarmi appresso?», chiese Giaime Cossu, convinto dalle razionali argomentazioni del suo superiore.

«Un compasso di proporzione tascabile, un cannocchiale Semitecolo e un celerimetro di Porro completo di custodia in legno».

«Bene», disse l’inviato prendendo in consegna la strumentazione scientifica che gli avrebbe garantito una copertura per le sue indagini segrete.

«Prendete anche questi altri documenti, una fedele riproduzione della Carta Manoscritta di Domenico Colombino e la “Carte Generale du theatre de la guerre en Italie” redatta dal topografo di Napoleone, con la rete stradale sarda. È una piccola biblioteca itinerante con la quale potrete dimostrare che state facendo sul serio il vostro lavoro».

«Quanto tempo dovrò stare in Villa?», disse l’uomo ricevendo il materiale cartaceo.

«Dipende. Ufficialmente il vostro lavoro non è certo semplice. Vi manderò io disposizioni, se necessario, in risposta a quanto mi farete sapere della situazione. Vi raccomando ancora discrezione. E non esponetevi ad alcun pericolo. Anzi, se voi vedeste dei pericoli per la vostra incolumità, tornate subito in città ad avvertirmi. Le ultime notizie giunte dalla Villa non sono state certo tranquillizzanti».

«Ho capito».

«Un’ultima cosa. Questa è una lettera di mia moglie per il Rettore suo cugino. Ditegli che è riservata. Tanto sono sicuro che, anche se non sarà lui il primo a spiattellarne il contenuto, qualcuno la troverà in giro per la casa e la leggerà a beneficio degli altri che vorranno sapere. Rafforzate la vostra copertura di sovrintendente e curatore dei beni della sua amata cugina. E non temete alcunché dal canonico Palacio: quando capirà che non siete lì per chiedergli soldi, anzi gliene portate in aggiunta a quelli che già dovrebbe versare alla cugina, vi accoglierà con buon garbo per tutto il tempo necessario».

«D’accordo», disse Giaime Cossu con un sottile sorriso d’intesa intascando anche la lettera che il suo superiore gli porgeva.

«Quando pensate di partire?»

«Domani all’alba».

«Bene. Appena avrete delle novità di rilievo, redigete il primo dispaccio e mandatemelo con il vostro servitore. Fatelo viaggiare presto e per i sentieri più sicuri.»

«Certamente. Volete che vi scriva in linguaggio criptato?»

«No, meglio di no. Indirizzate la lettera alla Reale Cancelleria ma con il nominativo della vostra mandante di copertura».

«Donna Mercedes Palacio?»

«Sì, certo. Scrivete rivolgendovi a lei e utilizzate magari delle metafore oppure delle perifrasi. Giusto in caso intercettino le missive. Anche se l’utilizzo del corriere personale dovrebbe rendere più difficile l’intercettazione».

«D’accordo».

«Come viaggerete?»

«A cavallo. Meglio evitare la carrozza. Attira l’attenzione dei briganti di strada e poi si noterebbe troppo all’arrivo; e io voglio arrivare quanto più inosservato posso».

«Bravo. Ben detto», approvò il Cancelliere Reale. I soldi per addestrare quell’uomo erano stati spesi bene. Dai suoi istruttori torinesi aveva imparato bene l’arte di muoversi senza troppo scoprirsi, di osservare senza essere osservato, di cogliere le cose più importanti per riferirle in sintesi a chi di dovere.

«Allora buon viaggio a voi, maggiore. E tenetemi informato più che potete» disse il Reggente della Reale Cancelleria stringendo la mano dell’uomo. L’inviato gli sorrise senza dire niente altro.

Nonostante fosse un suo superiore, Giovanni Maria Meloni provava un grande rispetto per quell’uomo. Non tanto per quei pochi anni che aveva in più di lui, che non potevano certo mettere in soggezione l’uomo più potente del Regno di Sardegna, dopo il viceré, ma piuttosto per i suoi trascorsi personali e per la tradizione familiare che accompagnavano il suo stato di servizio. 

Giaime Cossu era un uomo di statura media, dal fisico asciutto, che dimostrava meno dei suoi quarantaquattro anni. Il titolo di cavaliere lo aveva ereditato dal padre Giacinto, morto da eroe durante la cruenta battaglia con la quale i volontari Sardi, accorsi alla chiamata alle armi del viceré Balbiano, respinsero i quattromila soldati Francesi sbarcati nell’isola nel gennaio 1794.

Sulle ali di questa eclatante vittoria sui Francesi, i politici di Torino, si decisero finalmente ad accogliere una delle più annose richieste dei Sardi, sostenute invero da più di un predecessore di Balbiano: quella di attribuire ai nativi isolani tutti gli impieghi pubblici, escluso quello del sostituto del Re. Si decise così di cominciare ad assumere nei ranghi della pubblica amministrazione quei Sardi che si fossero distinti nella battaglia di Quartu Sant’Elena contro i Francesi, attribuendogli le mansioni più confacenti ai loro titoli di studio e alle esperienze professionali pregresse.

Nella lista che Balbiano aveva consegnato al suo successore, il viceré Vivalda, vi era, tra i tanti nominativi, quello della vedova di Giacinto Cossu, all’epoca dei fatti già incinta del figlio Giaime.

Sua Altezza Reale Carlo Felice,  che rilevò le funzioni delegate a Cagliari proprio dal Vivalda, osservò curiosamente che le donne non potevano ricoprire impieghi pubblici nell’amministrazione sabauda, per le note carenze e per lo stato di inferiorità intellettiva, che allora ingiustamente si ritenevano connaturate al sesso femminile, deputato esclusivamente al ruolo di moglie e di madre.

 Il suo consigliere e amico Don Giacomo Pes, futuro marchese di Villamarina, saputo che la donna aveva partorito un figlio del cavaliere alla memoria militare Giacinto, suggerì che venisse assunto il figlio al posto del padre.

A Carlo Felice l’idea piacque molto.  Intanto perché il figlio dell’eroe aveva soltanto cinque anni e quindi si procrastinava ancora l’adempimento di quella promessa, che poi era divenuta, nel frattempo, anche un obbligo di legge.

Occorre poi aggiungere che il futuro re Carlo Felice andava sempre più entusiasmandosi di quel popolo laborioso, coraggioso e tenace, anche se chiuso nella sua atavica arretratezza e diffidente per natura.

Quando nel 1806, il re Vittorio Emanuele I, subentrato a suo fratello, sospinto dagli ostili venti di guerra napoleonici, che soffiavano nei suoi territori di terraferma, giunse a Cagliari,  Giaime Cossu aveva compiuto dieci anni e si era distinto dai Padri Scolopi, alle cui sapienti cure pedagogiche  il Villamarina lo aveva indirizzato a spese del demanio, come uno degli scolari più diligenti, intuitivi  e capaci.

Nel 1815, finalmente, insieme alla restaurazione del vecchio ordine europeo, si aprirono per i Sardi le porte della pubblica amministrazione piemontese.

 Il cavaliere Pes di Villamarina, prima che il suo sovrano partisse per Torino, lasciandolo a Cagliari a governare in sua vece, ottenne dal sovrano il permesso di costituire anche all’interno della segreteria di stato viceregia, sotto il personale controllo del titolare della massima carica sarda, una pattuglia segreta con il nome di sottocommissione per i lavori di statistica, sul modello di quella che si era già costituita a Torino presso il Ministero degli Esteri.

 Soltanto pochi decenni dopo, quella istituzione, che praticamente era a tutti gli effetti un servizio di spionaggio e controspionaggio, avrebbe avuto come capo incontrastato il conte di Camillo Benso di Cavour e come operatrici di rilievo perfino delle donne, preferite dal fautore dell’unità italiana, perché capaci, più dei colleghi maschi, di infilarsi nelle alcove degli eminenti personaggi ai quali strappare segreti e promesse di appoggi militari e politici in tutti i campi. Insomma un servizio di intelligence in piena regola.

Giaime Cossu era stato il primo sardo ad essere inviato alla scuola di addestramento che istruiva le future spie del Regno di Sardegna, da sistemare poi in apposite funzioni di copertura nella pubblica amministrazione.

Dopo il severo addestramento triennale il cavaliere Giaime Cossu venne proprio insignito del grado di tenente e pubblico ufficiale da don Giacomo Pes di Villamarina in persona, nel frattempo rientrato a Torino per farsi strada in   una brillante carriera ai massimi livelli governativi.

A sua richiesta, il giovane sardo fu destinato alla segretaria di stato viceregia e, non potendo ricoprire funzioni diplomatiche, gli venne assegnata, come paravento, la funzione di archivista, pur mantenendo nel suo dossier personale, il grado ufficiale di tenente.

Prima di ripartire da Torino per ricongiungersi alla sua attempata madre, di cui costituiva l’unico sostegno economico e psicologico, Giaime si sposò con Angela Petri Raimondi, una quasi coetanea, per metà nizzarda e per l’altra metà corsa, che aveva conosciuto in occasione di una delle feste che si organizzavano negli ambienti del Ministero degli Esteri che lui frequentava a pieno titolo, e di cui si era innamorato, contraccambiato, nel prosieguo del suo soggiorno torinese.

E fu con lei che lasciò Torino per la Sardegna, nell’anno di grazia del Signore 1818.

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I Nuovi Baroni

Capitolo Secondo

«Vostra Eccellenza mi ha fatto chiamare?»

«Sì, certo. Accomodatevi e leggete questo dispaccio riservato appena giunto da Torino».

Non senza emozione il Reggente della Reale Cancelleria Giovanni Maria Meloni si accinse a leggere il dispaccio che il viceré Giuseppe Maria Montiglio di Ottiglio e Villanova gli aveva sottoposto. Non capitava tutti i giorni che il rappresentante del Re in Sardegna gli facesse leggere direttamente la corrispondenza riservata che intercorreva tra il suo ufficio e la Segreteria di Stato per gli Affari Interni di Torino.

«Che ne pensate?» gli chiese il viceré appena ebbe finito di leggere, porgendogli un calice di un liquido ambrato che nel frattempo gli aveva versato.

«Al Re Carlo Alberto!», disse il Luogotenente del Regno facendo tintinnare i bicchieri.

«Al Re, alla Regina e all’erede al trono Vittorio Emanuele» approvò il cavaliere Giovanni Maria Meloni alzandosi in piedi anche lui.

Il viceré fu contento e commosso di questo brindisi augurale. Appena si furono nuovamente accomodati il viceré replicò la sua precedente domanda con un cenno del mento, indirizzato al dispaccio riservato ancora aperto davanti al suo più fido collaboratore, praticamente il numero due dell’amministrazione viceregia piemontese, in pratica quello che deteneva il maggior potere, subito dopo di lui, che però rappresentava Sua Maestà il Re di Sardegna Carlo Alberto.

Giovanni Maria Meloni gustò ancora un sorso di vino Dolcetta prima di rispondere. Nonostante gli avesse fatto provare i vini bianchi più dolci della Sardegna, non era riuscito a staccarlo da quel nettare piemontese che si produceva nei suoi possedimenti di Asti. Convenne mentalmente che quel liquore, rispetto alla malvasia, alla vernaccia e ai moscati sardi, aveva un gusto esotico che lo rendeva, in qualche misura, superiore.

«È una rogna.  Una grossa rogna eccellenza», disse raccogliendo i suoi pensieri. Sapeva infatti che il viceré non lo aveva convocato soltanto per sentire un suo parere, ma voleva confrontarsi con lui per trovare la migliore soluzione al problema.

«Prima di intervenire reputerei opportuno accertarci direttamente in loco della situazione, sia in relazione a come si siano realmente svolti i fatti, sia riguardo all’evoluzione che essi abbiano ingenerato»

«Come si siano svolti i fatti lo abbiamo appreso dal dottor Hernan Cany, il nostro commissario rappresentante».

«Vero. Ma è altrettanto vero che il dottor Cany, come è già a conoscenza di Vostra Eccellenza, è un nostalgico del passato regime e io avrei bisogno, a questo punto, di un resoconto più veritiero di quello che ci ha fatto lui»

«Concordo. Andate pure avanti» disse il viceré in tono rassegnato. In cuor suo maledisse la mala pianta della nostalgia che in quella terra inospitale faceva preferire i sovrani iberici, ormai illegittimi perfino agli occhi dei loro stessi sudditi e nella loro stessa patria, al legittimo sovrano piemontese.

«Io invierei un nostro delegato, seppure in incognito, con l’incarico di relazionare direttamente a noi».

«E se questo delegato ci riferisse che la situazione dell’ordine pubblico è fuori controllo?»

«Allora penso che Vostra Eccellenza dovrebbe mandare immediatamente una Compagnia di Dragoni armata di tutto punto…»

«Non vorrei arrivare a tanto; tanto più che in tal caso mi troverei a sguarnire le nostre truppe di stanza qui a Cagliari»

«Infatti»

«O Signùr, che gran pastiss! Questo è il risultato della politica del doppio passo di Torino!», si lamentò il viceré con un gesto di esasperata impotenza. Nonostante amasse sinceramente l’istituzione monarchica, da buon antibonapartista della prima ora, celava nel fondo del suo animo quella vecchia diffidenza che per lunghi anni aveva albergato nel cuore del vecchio sovrano Carlo Felice nei confronti delle idee liberali del principe di Carignano e del ramo cadetto dei Savoia, che con Carlo Alberto era subentrato nei diritti successori del Regno di Sardegna.

«Perché fasciarci la testa prima di essercela rotta?», interpose il Reggente della Reale Cancelleria.

«In effetti il Segretario di Stato parla di intervenire immediatamente ma non spiega come intervenire. Forse il mio vecchio amico Pes di Villamarina, in nome dei nostri comuni trascorsi militari, ha voluto lasciarmi un ampio margine di autonomia e di manovra»

«Così è sembrato anche a me di capire nella lettura del dispaccio che mi avete sottoposto. Seppure quelle minacce da Vienna e da Madrid non devono essere piaciute a Sua Eccellenza il Segretario di Stato!»

«Com’è la situazione della giurisdizione, all’atto pratico, in quella Villa di Sor?»

«Come nel resto dei feudi. I Baroni continuano ad arrogarsi il diritto di istruire i processi civili e criminali, corrispondendo laute elargizioni all’Ufficiale di Giustizia e ai Maggiori, anche nelle ville viciniori. E ciò nonostante l’Editto di abolizione della giurisdizione feudale da voi emanato, sia stato pubblicato e diffuso a dovere in ogni villa!»

«Se Torino ci avesse fornito i mezzi finanziari avremmo già istituito mandamenti e circondari dappertutto. Invece l’Editto scarica le spese delle nuove istituzioni giudiziali sui Consigli Comunicativi»

«Però questa causa possiamo almeno iscriverla nei nostri registri!», disse il cavalier Giovanni Maria Meloni che non voleva addentrarsi in questioni politiche troppo complesse.

«Ben detto! E chi possiamo mandare come nostro delegato a indagare?»

«Ho l’uomo che fa per noi. Ufficialmente è un archivista della mia segreteria,  ma ha già svolto per noi dei lavori speciali ».

L’ex generale Giuseppe Maria Montiglio annuì in modo quasi impercettibile.

Sapeva bene dell’esistenza di una polizia segreta all’interno dell’organigramma ufficiale della Reale Cancelleria. L’aveva trovata già istituita al suo insediamento e sapeva che tutto era stato fatto con il beneplacito della Segreteria di Stato di Torino.

 Per amore del suo sovrano quello era uno dei tanti bocconi amari che la politica lo obbligava a ingoiare in quei maledetti tempi di liberismo esasperato.

«E come pensate di introdurlo nell’ambiente della Villa senza dar nell’occhio?», chiese il viceré.

«L’attuale Rettore della chiesa di San Biagio di Villa Sor è un cugino di mia moglie e le segue alcuni terreni dei loro avi comuni, ancora a lei intestati. Agli occhi della gente avrebbe come copertura l’incarico di prendere visione dello stato di manutenzione dei possedimenti della cugina del Rettore, notoriamente co-titolare dei terreni da lui posseduto, mentre allo stesso Rettore possiamo far credere che il nostro uomo sia lì per misurare e trarre planimetrie dei terreni a fini pubblici.»

«Mentre in realtà che cosa andrebbe a fare questo nostro uomo nella Villa?», chiese il vecchio militare che non amava i sotterfugi della politica.

«Se Vostra Eccellenza concorda, io lo manderei a indagare sull’assassino del Sostituto Podatario e sulla situazione di conflittualità venutasi a creare tra i vassalli e il feudatario. Come dice sempre Vostra Eccellenza prevenire è meglio che curare, e non vorrei che la situazione degenerasse, come paventato da Torino»

«Per carità! In questo momento una ribellione aperta contro il feudatario, si ritorcerebbe contro il nostro amato sovrano e contro di noi!», esclamò il viceré, spaventato all’idea di doversi trovare a sedare una rivolta.

«Ma quest’uomo infiltrato sarà visto come un alleato degli uomini del feudatario oppure come un partigiano dei vassalli?», chiese subito dopo il viceré.

In qualità di militare che aveva speso quasi interamente la sua vita sui campi di battaglia, nel fondo del suo animo, era incapace di vedere situazioni ambigue, che non fossero la guerra o la pace.

«Deve risultare una persona neutrale, un tecnico agrimensore, un topografo che sia lì a misurare le terre per doveri d’ufficio, magari per quel discorso dell’eversione delle terre feudali o per il calcolo del donativo che in fondo stanno tanto a cuore anche a noi».

«Bene», assentì sospirando il viceré, che aveva tanta voglia di arrendersi a quell’intricato progetto, pur di non restare inerte alle esortazioni giunte da Torino, quanta ne aveva il Reggente di metterlo in esecuzione per i suoi reconditi disegni.

«Non sarebbe male che si iniziasse seriamente una sorta di inventario delle terre coltivabili in quella villa e in tutte le altre ville infeudate dell’isola, suddividendole tra feudali e non feudali, tra comunali e private e così via.»

«Certo, certo. Dirò al nostro uomo di cominciare a impostare il suo lavoro in questo modo, stringendo delle alleanze con le persone giuste. Da solo, senza l’aiuto di persone del luogo, non potrebbe mai svolgere un simile delicato e difficile compito»

«Avete ragione, come sempre. Cosa farei senza di voi che conoscete così bene gli usi e lo stesso modo di pensare della vostra gente?» disse il viceré, che apprezzava veramente quell’uomo, sino a meravigliarsi, a volte, di come fosse possibile che in quella terra, lontana dalla sua patria e per molti versi, perfino ostile, esistessero degli uomini così sinceramente fedeli al suo amato sovrano piemontese.

«Occorre pazientare, Eccellenza. I miei connazionali si appassioneranno, con il tempo, ai nuovi sovrani. La nostra gente è molto, troppo attaccata alle antiche tradizioni e ha paura che i cambiamenti possano peggiorare la loro già misera condizione».

«Bisognerebbe fargli capire due cose: che il nostro sovrano Carlo Alberto li ama davvero e vuole, forse anche troppo, la loro libertà; e che se tutti insieme, riuscissimo a spezzare finalmente il giogo dei tributi e dei retaggi feudali, la loro condizione economica migliorerebbe di sicuro» disse con convinzione l’anziano viceré.

«Se si riuscisse a far penetrare nei loro cuori la nuova cultura e le nuove idee!»

«I feudatari non lo permetteranno mai. Sanno bene che il loro mondo crollerebbe subito sotto il peso della cultura e della coscienza della libertà».

«Forse è stato un errore lasciare al clero l’insegnamento. Se soltanto lo Stato si fosse accollati gli oneri dell’insegnamento elementare, anziché lasciarlo sulle spalle dei Consigli Comunicativi…»

 Giovanni Maria Meloni si pentì subito di aver toccato quel tasto troppo apertamente politico, che criticava una scelta del governo di Torino. Stranamente il viceré non si adombrò, limitandosi a dire: «Non vi preoccupate. È un vecchio pallino del nostro amato sovrano e vedrete che prima o poi riuscirà a introdurre la scuola obbligatoria per tutti a carico dello Stato».

 Il Reggente della Reale Udienza adesso scorse come un’ombra negli occhi del vecchio nobile piemontese. Ma non vi lesse un fastidio per la critica che aveva appena espresso, quanto piuttosto un sentimento di rassegnazione. Ma il suo attaccamento al vecchio mondo, quello antinapoleonico e savoiardo, era così radicato in lui, che forse superava perfino il dispiacere per il suo tempo migliore ormai trascorso.

 Decise di toglierlo dall’imbarazzo ritornando all’argomento principale del loro incontro:

«Se Vostra Eccellenza è d’accordo io manderei lì il nostro uomo immediatamente e in incognito; con le debite istruzioni.»

«Fatelo appena potete e ve ne sarò riconoscente. Attingete pure ai fondi che sapete con la mia autorizzazione personale!», disse il viceré. Un ultimo brindisi tra i due suggellò quella felice conclusione.

I Nuovi Baroni

Capitolo 1

Il vecchio notaio Joseph Nacho Salvador Sales si fermò, non solo per riprendere fiato, ma anche e soprattutto perché, a quel punto, era prevista la risposta dei vassalli e il conseguente   giuramento per conferma dei due consiglieri del Consiglio di Comunicazione, Efisio Blas Vargiu e Francisco Lorenzo Vaquer, in qualità di rappresentanti dei vassalli. 

Soltanto allora avrebbe potuto concludere il rito della presa di possesso del feudo in capo al nuovo marchese. Così aveva fatto egli stesso, venticinque anni prima,  per l’infeudazione del  padre di Don Carlos, Don Arbal e così era stato fatto da tempo immemore, o almeno sino dai tempi in cui, ed erano trascorsi molti secoli, il primo signore degli Alagon era stato infeudato da Ferdinando d’Aragona in quello che allora era soltanto uno spopolato villaggio e adesso contava ben cinque Partiti di ventisette Ville complessive.

Un coro di proteste si levò invece dalla folla presente che il messo comunale era riuscito a suon di tamburo e di corno a radunare nel cortile della Casa Forte, il centro di quel potere feudale da lui decantato a norma di legge.

«Basta con questi antichi vassallaggi!»

«Siamo stanchi di pagare!»

«Non ce la facciamo più»

«La legge è cambiata!»

«Non avete più i titoli per imporci questi odiosi tributi!»

«Evviva Carlo Alberto Re di Sardegna!»

«A morte i baroni e i marchesi austriaci e spagnoli!»

In un crescendo di rabbia e frustrazione adesso il popolo dei vassalli si era sollevato in una voce sola.

«Que pasa?», chiese il Sostituto Podatario Don Josep Mendoza al commissario dell’Udienza Reale Dottor Hernan Cany. Nonostante il potere fosse passato ai Savoia da più di un secolo, certi funzionari, specialmente quelli legati alla nobiltà del passato regime, parlavano tra loro ancora in lingua castigliana.

«No sé», rispose il commissario della Reale Udienza preso di sorpresa. Poi rivolto al notaio, nella lingua sarda che l’uomo stesso aveva usato per farsi intendere dai presenti.

«Cosa sta succedendo signor notaro?»

«I due consiglieri qui presenti mi hanno appena comunicato che i vassalli non intendono promettere obbedienza al nuovo padrone. Tra loro gira la voce che il Re Sardo abbia emanato un editto con il quale avrebbe abolito i diritti del feudo».

Il Sostituto Podatario, che detestava nel profondo del cuore i vassalli sardi, inviperito inoltre per aver dovuto sostituire il titolare all’ultimo momento, si sporse dal ballatoio e con fare minaccioso, stringendo il pugno della mano destra, si mise a inveire nella sua lingua madre, che era quella castigliana, con irripetibili improperi che investivano direttamente le madri innocenti dei vassalli ribelli.

Antoni Pinna, figlio di una popolana e di padre ignoto, ovvero di N.N., come si usava annotare allora nei registri del battesimo in quei casi, che forse aveva persino sangue spagnolo nelle vene e che delle invettive  urlate dal Sostituto Podatario aveva sicuramente afferrato quella che considerò un’offesa e un oltraggio  imperdonabili a sua madre, si fece largo tra la folla dei vassalli, prese di mira l’esagitato Podatario con il suo moschetto ad avancarica e lo centrò in pieno petto, urlando a sua volta: «Bagassa manna mamma tua!».

Forse fu più sorpreso lo stesso Antoni di quel centro fortunoso, anche se la distanza non superava probabilmente i cinquanta metri.

Dopo un attimo di incertezza, allo stupore, frammisto ad orgoglio, per quel centro portentoso, vedendo l’uomo accasciarsi pesantemente tra le braccia dei vicini, subentrarono la coscienza di aver ferito gravemente il rappresentante di un uomo potente, il marchese padrone del feudo, e la paura delle conseguenze. Tanto più che l’Ufficiale di Giustizia e il Maggiore, stringendo ancora tra le braccia il corpo inerte del Podatario supplente, si misero a urlare ai presenti di afferrare l’assassino per assicurarlo alla legge mentre prestavano le prime cure al ferito.

 Antoni si mise a correre come un pazzo.

Attraversata la via reale, si infilò nel Bosco de Is Murtas e lì, nonostante il pronto inseguimento del tenente e di due miliziani presenti al raduno, fece perdere le sue tracce, essendo più giovane e più veloce dei suoi inseguitori.

https://www.ibs.it/nuovi-baroni-agonia-del-potere-libro-ignazio-salvatore-basile/e/9788833436548

Sardegna e Libertà

Quando ero giovane andavo spesso, su incarico di mio padre, nei vari uffici pubblici: Poste, Camera di Commercio, Ufficio del Registro, ecc.; mi succedeva anche di andare dal medico a prendere il posto (allora usava così), per mia nonna o per mia mamma.

Trovavo in questi luoghi una variopinta rappresentanza del genere umano, per lo più dolente,  che allora abitava la nostra bella Isola. Alle Poste in particolare si trovavano i più incazzati: sembravano pronti a far crollare il governo in carica a colpi di cannone (o magari di roncola); io dentro di me, ingenuamente,  pensavo: ” alle prossime elezioni politiche i democristiani (allora i nemici dei giovani idealisti e dei sognatori del cambiamento erano soprattutto i “matusa” della Democrazia Cristiana) prenderanno un tale calcio nel sedere che  ci saremo finalmente liberati di loro, della loro protervia, della loro incapacità e del malaffare che si portano dietro”.

Così pensando attendevo trepidante il risultato delle elezioni; regolarmente le vincevano i democristiani; così il cambiamento agognato restava fuori dalla porta.

Non riuscivo però a farmene una ragione: “Ma come?”, mi chiedevo tra l’indignazione e l’incredulità; li ho sentiti io con le mie orecchie e li ho visti io trattati a pesci in faccia dall’impiegato della Camera di Commercio o dal nevrotico impiegato delle Poste (ce n’è sempre uno, anche oggi, pronto a scaricare le sue frustrazioni sulla ignara e indifesa utenza); ho sopportato insieme a loro delle file estenuanti, inspiegabili, inammissibili, inconcepibili in un Paese che voglia dirsi civile e solidale.

Ma allora perchè continuano a votare i responsabili delle disfunzioni nel funzionamento dei pubblici uffici e del malaffare dilagante?

Così diventai sardista. In nome della nostra specialità e della costante resistenziale sarda vidi nel sardismo una via d’uscita ai mali della Sardegna. La mia fede cominciò però a traballare quando acchiapparono con le mani nel sacco i primi sardisti artefici in negativo della stagione di tangentopoli in salsa quattro mori; ma forse avrei dovuto aprire gli occhi molto tempo prima; quando ad esempio, in previsione di un’assemblea condominiale discorrevo con gli amici che avrebbero dovuto e potuto sostituire i loro genitori, proprio come me, nell’assemblea nella quale si doveva discutere e approvare il bilancio consuntivo; prima della riunione questi amici berciavano contro l’amministratore condominiale di turno (all’epoca erano tutti dei dilettanti, condomini anche essi, divisi tra il desiderio di rendersi utili e l’improvvisazione tipica dei dilettanti), accusandolo delle peggiori nefandezze, di ammanchi di cassa, di ruberie, malversazioni e appropriazioni indebite; ma quando scattava l’ora X della riunione scoprivano di avere degli impegni improrogabili ed io mi ritrovavo solo in Assemblea a combattere contro i mulini a vento; e ancora prima, quando studente delle scuole superiori, mi attivavo per organizzare le assemblee studentesche di migliaia di iscritti; ma a dibattere i problemi della scuola ci ritrovavamo in un centinaio scarso; e se c’era da distribuire volantini in ciclostile o da sfilare in corteo con il megafono, di quei mille e di quei cento ne scorgevo, voltandomi a guardare, appena quindici (per abbondare).

Adesso quando sento  parlare o leggo di Sardegna libera dal giogo degli Italiani, penso che i primi, veri  Italiani siamo noi Sardi: coraggiosi, fieri, orgogliosi ma inguaribilmente italiani nella nostra indolenza, nella nostra rassegnazione, nella nostra incapacità di muoverci insieme; individualisti fino al midollo; bravi a lamentarci e piangerci addosso ma pronti a rientrare nell’ombra nel momento dell’assunzione di responsabilità.

Colpa dei Savoia o dei Borbone? Colpa dei romani e delle loro legioni? Colpa dei bizantini, dei pisani, dei catalani o dei castigliani?

Non  saprei rispondere. Forse anche per noi vale vale l’antico adagio meridionale “Francia o Spagna, purchè si magna!”

Mi resta il vanto di essere discendente di quei grandi uomini che innalzarono al cielo quei mastodontici edifici che dopo migliaia di anni resistono ancora alle ingiurie del tempo, ma non posso fare a meno di constatare che il patrimonio genetico di quei grandi si è disperso, mischiandosi a quello dei diversi dominatori che nei millenni si sono succeduti nel dominio dell’Isola.

Ma non provo antipatia per chi ancora crede che valga la pena di parlare e di lottare per una Sardegna libera.

Anche io, un tempo lontano, ci ho creduto.

Addio alle Corride

corrida

Se il voto di domani (oggi per chi legge) accoglierà la petizione di numerose associazioni animaliste, la Catalogna (con Barcellona in testa) dovrà dire addio alle Corride.

Ben 180.000 cittadini catalani, infatti, hanno firmato la petizione che verrà ora votata dal Parlamento Regionale di Barcellona.

Intanto scoppiano le polemiche attorno al caso.

Quelli favorevoli alla tradizione della Corrida, assai radicata e rappresentativa della Spagna, al punto da costituirne uno dei simboli, se non il simbolo stesso per antonomasia, hanno accusato gli organizzatori abolizionisti, di mirare ad un indebolimento politico della coesione unitaria dello Stato Spagnolo, attraverso l’incrinazione dell’identità nazionale.

Ma gli abolizionisti, nel sottolineare che anche le Isole Canarie hanno vietato le Corride sin dal 1991, hanno dichiarato che in caso di successo, la petizione in difesa dei Tori sarà estesa ad altre Regioni della Spagna.

http://www.dailymail.co.uk

Tutti a Teatro

Martedì 28 aprile 2009 alle ore 18,00, al Centro Sociale di via Aldo Moro in DECIMOMANNU (CA), nell’ambito dei festeggiamenti per Sa die de sa Sardigna 2009, il gruppo teatrale Mattei dell’ITCG "E. Mattei" rappresenterà il Musical "Aforas sos Sardos" di Ignazio Salvatore Basile, musiche di Giorgio Cuccu e Antonio Piras con arrangiamenti di Giuseppe Atzori, coreografie di M.C. Erdas e scenografie di Antonello Cappai.

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Aforas sos Sardos!

Il 28 aprile, Sa die de sa Sardigna, al Centro Sociale di Decimomannu, i ragazzi del gruppo teatrale "Mattei" saranno di nuovo in scena a rappresentare  il Musical "Aforas sos Sardos"! Il mio sogno dopo i trionfi di Madrid? Portare lo spettacolo in mezzo ai fratelli abruzzesi terremotati! Non so se sarà possibile farlo a fine anno scolastico, ma mi piacerebbe davvero perchè credo che ci sia bisogno anche di spettacolo in quei dolorosi frangenti!

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