I Nuovi Baroni – 5

Capitolo Quinto

Antoni Pinna era un bel giovane dal fisico prestante. Sua madre, Mariuccia Pinna, aveva svolto servizio di domestica nella casa di don Gavino Palacio per parecchi anni, finché non si era trovata incinta. Per evitare di dare scandalo e di far chiacchierare la gente, era stata allontanata dalla casa del rettore da Donna Consuelo, che non era riuscita a farsi dire dalla serva chi fosse il padre di quella creatura che le cresceva in grembo.

I due fratelli non si erano però disinteressati delle sorti della sfortunata ragazza. Le avevano trovato un alloggio in periferia, nella zona di Sparagallu e le avevano permesso di continuare a lavorare, anche dopo la nascita del figlio, ma senza mai più permetterle di entrare in casa. Don Gavino si era mostrato comprensivo e addirittura si era offerto di insegnare al bambino, appena fu in età, i rudimenti della scrittura e della dottrina.

 Ma come la gente aveva ripreso a sparlare, donna Consuelo aveva suggerito al fratello che ponesse fine a quei generosi insegnamenti. Antoni, tuttavia, grazie alla sua precoce e viva intelligenza, aveva presto imparato a leggere e a scrivere, seppure limitatamente a testi molto semplici ed elementari. Crescendo era venuto su bene nel fisico e male nel carattere, introverso e aggressivo, a causa di quella sua condizione di bastardo che la malignità dei villani compaesani, non aveva mancato di stigmatizzare sin da quando era entrato in contatto, per le diverse occasioni, con loro.

 Divenuto più grande si era accapigliato con più d’una persona, malmenandola di santa ragione, per avere accennato a quella sua disgraziata condizione. Così la gente aveva preso a temerlo e si era limitata a parlargli alle spalle, senza più osare insultarlo apertamente.

 Fisicamente aveva preso tutto dalla mamma: il fisico asciutto e slanciato, la bellezza del viso, con la fronte ampia, le labbra carnose, un naso lievemente aquilino e gli zigomi pronunciati.

Niente che potesse comunque ricondurre al misterioso padre, di cui Mariuccia, si diceva, avesse soltanto parlato in confessione, visto che aveva ripreso a frequentare la chiesa e i sacramenti, pentita dell’errore commesso e disponibile a ravvedersi per il futuro, come aveva spiegato don Gavino alla sorella.

Divenuto uomo don Gavino lo aveva raccomandato a Carlo Emanuele Pistis, l’attuale sindaco in carica, perché lo prendesse a lavorare con sé e il printzipale, per farsi alleato con il potente e scorbutico rettore, lo aveva inserito nella Compagnia dei Barracelli, il corpo armato adibito alla difesa delle campagne e degli allevamenti, dalle troppo frequenti ruberie e grassazioni.

Era lì aveva perfezionato la sua abilità con il fucile, una passione che aveva manifestato sin da ragazzo. Nei servizi prestati in favore della compagnia barracellare girava sempre con il fucile carico, pronto a sparare. Ecco perché, quando aveva sentito quell’esagitato sostituto podatario, inveire dal ballatoio della Casa Forte, contro di lui, con quelle parole offensive nei confronti della madre, non c’aveva visto più e gli aveva sparato. A mente fredda si era poi pentito. Poteva anche darsi che quel vecchio non ce l’avesse proprio con sua madre, ma la parola offensiva, urlata a viva voce, davanti a tutti, in quel momento, gli aveva suggerito quel gesto vendicativo e riparatore.

Inizialmente si era rifugiato nel convento di Santa Greca, a Decimomannu, ma qualcuno gli aveva fatto sapere che gli uomini del marchese lo cercavano in tutti i conventi, pronti a irrompere con la forza, in dispregio del diritto di asilo di cui ancora godevano, invero in maniera residuale e con forza decrescente, quelle istituzioni religiose conventuali, decisi a vendicare la morte del Sostituto Podatario Josep Mendoza che lui aveva causato.

 Allora aveva preso il proponimento di darsi definitivamente alla macchia. Conosceva bene la campagna di Villa Sor e i villaggi abbandonati pullulavano di rifugi e di risorse naturali, sufficienti al suo sostentamento quotidiano. Aveva stabilito un contatto con sua madre che non mancava di fargli avere, quando possibile, dei panni puliti e qualcosa di caldo da mangiare, anche se lui non mancava di arrostirsi, all’aperto, le prede che riusciva a catturare nel fiume con le sue nasse e, in terra, con il suo fucile.

 La cosa che gli pesava di più, in realtà, era la mancanza della ragazza di cui si era innamorato e che, seppure segretamente, ricambiava in pieno il suo sentimento. Doveva assolutamente farle sapere che lui la stimava ancora e voleva spiegarle i motivi per cui aveva sparato a quell’odioso forestiero e che si era comunque pentito di quel che aveva fatto. Quella era adesso la sua primaria, unica e vera preoccupazione. Il resto lo avrebbe affrontato di buon grado; ma a quell’amore non avrebbe saputo e non voleva assolutamente rinunciare.

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I Nuovi Baroni

Capitolo Secondo

«Vostra Eccellenza mi ha fatto chiamare?»

«Sì, certo. Accomodatevi e leggete questo dispaccio riservato appena giunto da Torino».

Non senza emozione il Reggente della Reale Cancelleria Giovanni Maria Meloni si accinse a leggere il dispaccio che il viceré Giuseppe Maria Montiglio di Ottiglio e Villanova gli aveva sottoposto. Non capitava tutti i giorni che il rappresentante del Re in Sardegna gli facesse leggere direttamente la corrispondenza riservata che intercorreva tra il suo ufficio e la Segreteria di Stato per gli Affari Interni di Torino.

«Che ne pensate?» gli chiese il viceré appena ebbe finito di leggere, porgendogli un calice di un liquido ambrato che nel frattempo gli aveva versato.

«Al Re Carlo Alberto!», disse il Luogotenente del Regno facendo tintinnare i bicchieri.

«Al Re, alla Regina e all’erede al trono Vittorio Emanuele» approvò il cavaliere Giovanni Maria Meloni alzandosi in piedi anche lui.

Il viceré fu contento e commosso di questo brindisi augurale. Appena si furono nuovamente accomodati il viceré replicò la sua precedente domanda con un cenno del mento, indirizzato al dispaccio riservato ancora aperto davanti al suo più fido collaboratore, praticamente il numero due dell’amministrazione viceregia piemontese, in pratica quello che deteneva il maggior potere, subito dopo di lui, che però rappresentava Sua Maestà il Re di Sardegna Carlo Alberto.

Giovanni Maria Meloni gustò ancora un sorso di vino Dolcetta prima di rispondere. Nonostante gli avesse fatto provare i vini bianchi più dolci della Sardegna, non era riuscito a staccarlo da quel nettare piemontese che si produceva nei suoi possedimenti di Asti. Convenne mentalmente che quel liquore, rispetto alla malvasia, alla vernaccia e ai moscati sardi, aveva un gusto esotico che lo rendeva, in qualche misura, superiore.

«È una rogna.  Una grossa rogna eccellenza», disse raccogliendo i suoi pensieri. Sapeva infatti che il viceré non lo aveva convocato soltanto per sentire un suo parere, ma voleva confrontarsi con lui per trovare la migliore soluzione al problema.

«Prima di intervenire reputerei opportuno accertarci direttamente in loco della situazione, sia in relazione a come si siano realmente svolti i fatti, sia riguardo all’evoluzione che essi abbiano ingenerato»

«Come si siano svolti i fatti lo abbiamo appreso dal dottor Hernan Cany, il nostro commissario rappresentante».

«Vero. Ma è altrettanto vero che il dottor Cany, come è già a conoscenza di Vostra Eccellenza, è un nostalgico del passato regime e io avrei bisogno, a questo punto, di un resoconto più veritiero di quello che ci ha fatto lui»

«Concordo. Andate pure avanti» disse il viceré in tono rassegnato. In cuor suo maledisse la mala pianta della nostalgia che in quella terra inospitale faceva preferire i sovrani iberici, ormai illegittimi perfino agli occhi dei loro stessi sudditi e nella loro stessa patria, al legittimo sovrano piemontese.

«Io invierei un nostro delegato, seppure in incognito, con l’incarico di relazionare direttamente a noi».

«E se questo delegato ci riferisse che la situazione dell’ordine pubblico è fuori controllo?»

«Allora penso che Vostra Eccellenza dovrebbe mandare immediatamente una Compagnia di Dragoni armata di tutto punto…»

«Non vorrei arrivare a tanto; tanto più che in tal caso mi troverei a sguarnire le nostre truppe di stanza qui a Cagliari»

«Infatti»

«O Signùr, che gran pastiss! Questo è il risultato della politica del doppio passo di Torino!», si lamentò il viceré con un gesto di esasperata impotenza. Nonostante amasse sinceramente l’istituzione monarchica, da buon antibonapartista della prima ora, celava nel fondo del suo animo quella vecchia diffidenza che per lunghi anni aveva albergato nel cuore del vecchio sovrano Carlo Felice nei confronti delle idee liberali del principe di Carignano e del ramo cadetto dei Savoia, che con Carlo Alberto era subentrato nei diritti successori del Regno di Sardegna.

«Perché fasciarci la testa prima di essercela rotta?», interpose il Reggente della Reale Cancelleria.

«In effetti il Segretario di Stato parla di intervenire immediatamente ma non spiega come intervenire. Forse il mio vecchio amico Pes di Villamarina, in nome dei nostri comuni trascorsi militari, ha voluto lasciarmi un ampio margine di autonomia e di manovra»

«Così è sembrato anche a me di capire nella lettura del dispaccio che mi avete sottoposto. Seppure quelle minacce da Vienna e da Madrid non devono essere piaciute a Sua Eccellenza il Segretario di Stato!»

«Com’è la situazione della giurisdizione, all’atto pratico, in quella Villa di Sor?»

«Come nel resto dei feudi. I Baroni continuano ad arrogarsi il diritto di istruire i processi civili e criminali, corrispondendo laute elargizioni all’Ufficiale di Giustizia e ai Maggiori, anche nelle ville viciniori. E ciò nonostante l’Editto di abolizione della giurisdizione feudale da voi emanato, sia stato pubblicato e diffuso a dovere in ogni villa!»

«Se Torino ci avesse fornito i mezzi finanziari avremmo già istituito mandamenti e circondari dappertutto. Invece l’Editto scarica le spese delle nuove istituzioni giudiziali sui Consigli Comunicativi»

«Però questa causa possiamo almeno iscriverla nei nostri registri!», disse il cavalier Giovanni Maria Meloni che non voleva addentrarsi in questioni politiche troppo complesse.

«Ben detto! E chi possiamo mandare come nostro delegato a indagare?»

«Ho l’uomo che fa per noi. Ufficialmente è un archivista della mia segreteria,  ma ha già svolto per noi dei lavori speciali ».

L’ex generale Giuseppe Maria Montiglio annuì in modo quasi impercettibile.

Sapeva bene dell’esistenza di una polizia segreta all’interno dell’organigramma ufficiale della Reale Cancelleria. L’aveva trovata già istituita al suo insediamento e sapeva che tutto era stato fatto con il beneplacito della Segreteria di Stato di Torino.

 Per amore del suo sovrano quello era uno dei tanti bocconi amari che la politica lo obbligava a ingoiare in quei maledetti tempi di liberismo esasperato.

«E come pensate di introdurlo nell’ambiente della Villa senza dar nell’occhio?», chiese il viceré.

«L’attuale Rettore della chiesa di San Biagio di Villa Sor è un cugino di mia moglie e le segue alcuni terreni dei loro avi comuni, ancora a lei intestati. Agli occhi della gente avrebbe come copertura l’incarico di prendere visione dello stato di manutenzione dei possedimenti della cugina del Rettore, notoriamente co-titolare dei terreni da lui posseduto, mentre allo stesso Rettore possiamo far credere che il nostro uomo sia lì per misurare e trarre planimetrie dei terreni a fini pubblici.»

«Mentre in realtà che cosa andrebbe a fare questo nostro uomo nella Villa?», chiese il vecchio militare che non amava i sotterfugi della politica.

«Se Vostra Eccellenza concorda, io lo manderei a indagare sull’assassino del Sostituto Podatario e sulla situazione di conflittualità venutasi a creare tra i vassalli e il feudatario. Come dice sempre Vostra Eccellenza prevenire è meglio che curare, e non vorrei che la situazione degenerasse, come paventato da Torino»

«Per carità! In questo momento una ribellione aperta contro il feudatario, si ritorcerebbe contro il nostro amato sovrano e contro di noi!», esclamò il viceré, spaventato all’idea di doversi trovare a sedare una rivolta.

«Ma quest’uomo infiltrato sarà visto come un alleato degli uomini del feudatario oppure come un partigiano dei vassalli?», chiese subito dopo il viceré.

In qualità di militare che aveva speso quasi interamente la sua vita sui campi di battaglia, nel fondo del suo animo, era incapace di vedere situazioni ambigue, che non fossero la guerra o la pace.

«Deve risultare una persona neutrale, un tecnico agrimensore, un topografo che sia lì a misurare le terre per doveri d’ufficio, magari per quel discorso dell’eversione delle terre feudali o per il calcolo del donativo che in fondo stanno tanto a cuore anche a noi».

«Bene», assentì sospirando il viceré, che aveva tanta voglia di arrendersi a quell’intricato progetto, pur di non restare inerte alle esortazioni giunte da Torino, quanta ne aveva il Reggente di metterlo in esecuzione per i suoi reconditi disegni.

«Non sarebbe male che si iniziasse seriamente una sorta di inventario delle terre coltivabili in quella villa e in tutte le altre ville infeudate dell’isola, suddividendole tra feudali e non feudali, tra comunali e private e così via.»

«Certo, certo. Dirò al nostro uomo di cominciare a impostare il suo lavoro in questo modo, stringendo delle alleanze con le persone giuste. Da solo, senza l’aiuto di persone del luogo, non potrebbe mai svolgere un simile delicato e difficile compito»

«Avete ragione, come sempre. Cosa farei senza di voi che conoscete così bene gli usi e lo stesso modo di pensare della vostra gente?» disse il viceré, che apprezzava veramente quell’uomo, sino a meravigliarsi, a volte, di come fosse possibile che in quella terra, lontana dalla sua patria e per molti versi, perfino ostile, esistessero degli uomini così sinceramente fedeli al suo amato sovrano piemontese.

«Occorre pazientare, Eccellenza. I miei connazionali si appassioneranno, con il tempo, ai nuovi sovrani. La nostra gente è molto, troppo attaccata alle antiche tradizioni e ha paura che i cambiamenti possano peggiorare la loro già misera condizione».

«Bisognerebbe fargli capire due cose: che il nostro sovrano Carlo Alberto li ama davvero e vuole, forse anche troppo, la loro libertà; e che se tutti insieme, riuscissimo a spezzare finalmente il giogo dei tributi e dei retaggi feudali, la loro condizione economica migliorerebbe di sicuro» disse con convinzione l’anziano viceré.

«Se si riuscisse a far penetrare nei loro cuori la nuova cultura e le nuove idee!»

«I feudatari non lo permetteranno mai. Sanno bene che il loro mondo crollerebbe subito sotto il peso della cultura e della coscienza della libertà».

«Forse è stato un errore lasciare al clero l’insegnamento. Se soltanto lo Stato si fosse accollati gli oneri dell’insegnamento elementare, anziché lasciarlo sulle spalle dei Consigli Comunicativi…»

 Giovanni Maria Meloni si pentì subito di aver toccato quel tasto troppo apertamente politico, che criticava una scelta del governo di Torino. Stranamente il viceré non si adombrò, limitandosi a dire: «Non vi preoccupate. È un vecchio pallino del nostro amato sovrano e vedrete che prima o poi riuscirà a introdurre la scuola obbligatoria per tutti a carico dello Stato».

 Il Reggente della Reale Udienza adesso scorse come un’ombra negli occhi del vecchio nobile piemontese. Ma non vi lesse un fastidio per la critica che aveva appena espresso, quanto piuttosto un sentimento di rassegnazione. Ma il suo attaccamento al vecchio mondo, quello antinapoleonico e savoiardo, era così radicato in lui, che forse superava perfino il dispiacere per il suo tempo migliore ormai trascorso.

 Decise di toglierlo dall’imbarazzo ritornando all’argomento principale del loro incontro:

«Se Vostra Eccellenza è d’accordo io manderei lì il nostro uomo immediatamente e in incognito; con le debite istruzioni.»

«Fatelo appena potete e ve ne sarò riconoscente. Attingete pure ai fondi che sapete con la mia autorizzazione personale!», disse il viceré. Un ultimo brindisi tra i due suggellò quella felice conclusione.

I Nuovi Baroni

Capitolo 1

Il vecchio notaio Joseph Nacho Salvador Sales si fermò, non solo per riprendere fiato, ma anche e soprattutto perché, a quel punto, era prevista la risposta dei vassalli e il conseguente   giuramento per conferma dei due consiglieri del Consiglio di Comunicazione, Efisio Blas Vargiu e Francisco Lorenzo Vaquer, in qualità di rappresentanti dei vassalli. 

Soltanto allora avrebbe potuto concludere il rito della presa di possesso del feudo in capo al nuovo marchese. Così aveva fatto egli stesso, venticinque anni prima,  per l’infeudazione del  padre di Don Carlos, Don Arbal e così era stato fatto da tempo immemore, o almeno sino dai tempi in cui, ed erano trascorsi molti secoli, il primo signore degli Alagon era stato infeudato da Ferdinando d’Aragona in quello che allora era soltanto uno spopolato villaggio e adesso contava ben cinque Partiti di ventisette Ville complessive.

Un coro di proteste si levò invece dalla folla presente che il messo comunale era riuscito a suon di tamburo e di corno a radunare nel cortile della Casa Forte, il centro di quel potere feudale da lui decantato a norma di legge.

«Basta con questi antichi vassallaggi!»

«Siamo stanchi di pagare!»

«Non ce la facciamo più»

«La legge è cambiata!»

«Non avete più i titoli per imporci questi odiosi tributi!»

«Evviva Carlo Alberto Re di Sardegna!»

«A morte i baroni e i marchesi austriaci e spagnoli!»

In un crescendo di rabbia e frustrazione adesso il popolo dei vassalli si era sollevato in una voce sola.

«Que pasa?», chiese il Sostituto Podatario Don Josep Mendoza al commissario dell’Udienza Reale Dottor Hernan Cany. Nonostante il potere fosse passato ai Savoia da più di un secolo, certi funzionari, specialmente quelli legati alla nobiltà del passato regime, parlavano tra loro ancora in lingua castigliana.

«No sé», rispose il commissario della Reale Udienza preso di sorpresa. Poi rivolto al notaio, nella lingua sarda che l’uomo stesso aveva usato per farsi intendere dai presenti.

«Cosa sta succedendo signor notaro?»

«I due consiglieri qui presenti mi hanno appena comunicato che i vassalli non intendono promettere obbedienza al nuovo padrone. Tra loro gira la voce che il Re Sardo abbia emanato un editto con il quale avrebbe abolito i diritti del feudo».

Il Sostituto Podatario, che detestava nel profondo del cuore i vassalli sardi, inviperito inoltre per aver dovuto sostituire il titolare all’ultimo momento, si sporse dal ballatoio e con fare minaccioso, stringendo il pugno della mano destra, si mise a inveire nella sua lingua madre, che era quella castigliana, con irripetibili improperi che investivano direttamente le madri innocenti dei vassalli ribelli.

Antoni Pinna, figlio di una popolana e di padre ignoto, ovvero di N.N., come si usava annotare allora nei registri del battesimo in quei casi, che forse aveva persino sangue spagnolo nelle vene e che delle invettive  urlate dal Sostituto Podatario aveva sicuramente afferrato quella che considerò un’offesa e un oltraggio  imperdonabili a sua madre, si fece largo tra la folla dei vassalli, prese di mira l’esagitato Podatario con il suo moschetto ad avancarica e lo centrò in pieno petto, urlando a sua volta: «Bagassa manna mamma tua!».

Forse fu più sorpreso lo stesso Antoni di quel centro fortunoso, anche se la distanza non superava probabilmente i cinquanta metri.

Dopo un attimo di incertezza, allo stupore, frammisto ad orgoglio, per quel centro portentoso, vedendo l’uomo accasciarsi pesantemente tra le braccia dei vicini, subentrarono la coscienza di aver ferito gravemente il rappresentante di un uomo potente, il marchese padrone del feudo, e la paura delle conseguenze. Tanto più che l’Ufficiale di Giustizia e il Maggiore, stringendo ancora tra le braccia il corpo inerte del Podatario supplente, si misero a urlare ai presenti di afferrare l’assassino per assicurarlo alla legge mentre prestavano le prime cure al ferito.

 Antoni si mise a correre come un pazzo.

Attraversata la via reale, si infilò nel Bosco de Is Murtas e lì, nonostante il pronto inseguimento del tenente e di due miliziani presenti al raduno, fece perdere le sue tracce, essendo più giovane e più veloce dei suoi inseguitori.

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