I Thirsenoisin

Intanto, in preda a queste riflessioni, era giunto in vista al recinto dove Rumisu si apprestava a liberare  le sue greggi per condurle al pascolo. Lo vide, prima anche che sentirlo, raggruppare gli animali, con quei movimenti e quei richiami che un pastore ripete con la solennità che gli proviene dall’innato costume a dominare le greggi, ma senza violenza o malanimo, quasi con amore, come se animali e uomini fossero una sola entità, sacra e da rispettare. Al contrario del fratello,  Rumisu si era da subito dedicato alla cura delle greggi, con tutta l’anima e con tutto se stesso. Avevano sposato due sorelle e sua moglie gli  aveva già dato due figli, un maschio e una femmina.

«Bentornato, padre!» esclamò quando fu a portata di voce.

No, Rumisu non c’entrava per niente in quella brutta storia. Era rimasto sorpreso anche lui per il gesto del fratello. Gli aveva letto ancora  l’incredulità e la sorpresa nel viso, quando Damasu era fuggito via, e lui finalmente, passato

quel drammatico istante, si era reso conto di tutto e si era guardato attorno, per vedere se il pericolo fosse cessato con la fuga del suo mancato assassino.

«Grazie figlio mio. Mi aiuti a scegliere due caprette da immolare agli dei delle acque per richiedere  la guarigione di Elki? Sceglile tra le mie, naturalmente.»

«Se permettete, padre, vorrei sceglierne due delle mie. Voglio offrirle io in sacrificio.»

«Sì, certo! Agli dei piaceranno doppiamente!» assentì con intimo giubilo Itzoccar. «Mandamele con uno dei servi alla residenza dei sacerdoti, giù al pozzo sacro! »

«Sarà fatto!»

«Vienimi a trovare coi tuoi figli quando sarai rientrato dai pascoli!»

«Va bene» rispose Rumisu salutando il padre, che subito si avviò in direzione del pozzo sacro.

L’Attrice

Ieri sera, dopo avere partecipato ad un convegno  al Palazzo di  Giustizia di Cagliari, pensieroso e stanco  me ne rientravo a casa.

Procedendo per la via, in quello stato di  svagatezza, tipico di una fine serata preceduta da una faticosa giornata  di impegni, di caldo rovente e di corse (a coronamento di una settimana altrettanto impegnativa), mi sento salutare in maniera espansiva.

Guardo con fare interrogativo una donna sui 55 anni,  abbastanza ordinata (indossava un vestito blu scuro, appena scollato), capelli e occhi castani su un viso abbronzato (ma  poteva essere scambiato anche per  il suo incarnato naturale) con un sorriso aperto sui denti bianchi che presentavano soltanto una leggera irregolarità nella parte inferiore dei due incisivi superiori centrali.

Al mio sguardo incuriosito e perplesso la donna, sempre con quel suo sorriso espansivo e confidenziale, mi chiede: “Dove lavorava lei 25 anni fa?”

E’ una tecnica che usano i maghi. Prima ti fanno parlare e poi, agganciandosi alle tue parole, riannodano un discorso in maniera naturale, facendoti credere di sapere ciò che non sanno e di essere ciò che non sono.

Del resto, è noto a tutti, che nelle società arcaiche, la recitazione e la magia andavano a braccetto.

E d’altronde chi può dubitare che un buon attore sia altresì un buon mago? Non ti fanno forse credere, i grandi divi dello schermo, di assistere e di partecipare a delle vicende reali, mentre razionalmente dovresti sapere che si tratta di finzione e nulla più?

Naturalmente tutte le persone che dimostrano gli anni che hanno,  pur non apparendo e non essendo ancora in età pensionabile,  hanno presumibilmente un trascorso lavorativo collocabile, a ritroso nel tempo,  a 25 anni prima.

Per cui alla domanda della sconosciuta ritorno istintivamente indietro con la memoria a un quarto di secolo fa. Io allora insegnavo a Guspini ma, potete giurarci, che se avessi detto Sanluri, o Cagliari, o Roma, o il Palazzo di Giustizia, o l’Ufficio del Registro, o la Genovese Gomme o che so io?, la ditta Vattelapesca di Canicattì, la bella signora avrebbe saputo elegantemente inserirsi nelle pieghe recondite dei miei ricordi!

Infatti la sconosciuta si aggangia bene: “Io lavoravo nel panificio di mio padre, si ricorda?”

Veramente io avrei pensato che fosse una bidella (ce ne sono anche di eleganti ed espansive, ve lo posso assicurare), oppure un’impiegata della Pretura di Guspini o di Sanluri, però proprio non me la ricordavo. Le ho  anche chiesto, ingenuamente, come facesse a ricordarsi di me, posto che   venticinque anni fa ero davvero completamente diverso. Ma ci sono persone che rispondono soltanto alle domande cui conviene rispondere, come certi testi reticenti o subornati. E poi, avete mai sentito di un lavoratore italiano, che non compri il pane fresco per sè o per la sua famiglia almeno una volta al giorno?

In maniera astuta e naturale la sconosciuta passa a parlare di sè! –  “Ero a fare la chemio” – mi dice. E sembra lì, lì per  svenire, mentre si appoggia alla vetrina di un negozio.

Le osservo i capelli. Purtroppo ho avuto episodi di chemio terapia in famiglia; e conosco bene il suo effetto devastante anche sui capelli. I suoi non mi sembrano capelli   che abbiano subito l’oltraggio della chemio. Le donne che vi sottopongono, di solito, perdono completamente i capelli e, quando ricrescono, almeno inizialmente, se si tratta di donne non più giovanissime, restano bianchi e corti; ci sono i tempi della normali della riproduzione e dell’allungamento e le precauzioni sanitarie, che suggeriscono di non tingerseli ancora. Intravvedo alla base del cuoio capelluto della mia interlocutrice occasionale una leggerissima ricrescita. E la sua capigliatura non è comunque una parrucca.

Tutto questi dettagli li colgo mentre la fantomatica signora è già passata alla terza e ultima parte del suo piano. Con una lacrima (che razionalmente definirei “finta” ma vi assicuro che non lo sembrava affatto) mi dice che nella sua ricerca spasmodica di danaro le mancano soltanto 120 euro; per pagare le bollette e con due figlie da mantenere. Mi ribadisce che il tumore le ha intaccato  i polmoni e, sottolineando che lei aveva una quinta, fa per mostrarmi il seno sinistro che avrebbe subito la mastectomia. Naturalmente la fermo, anche se non posso fare a meno di notare che oltre la scollatura, la carnagione è di colore bianco-latte: quindi, non di incarnato naturale è la sua bella e colorita abbronzatura.

Io non giro mai con molti soldi in tasca e pago regolarmente con la carta bancomat anche le spese frequenti del supermarket (non quelle, sempre più rare, in verità, dell’edicola e del bar).

La vicenda però mi ha emotivamente coinvolto. E  anche se ho giurato di non dare più da soldi a sconosciuti, per strada, penso a come posso aiutare quella sventurata.

Ho giurato di non dare più soldi a sconosciuti da quella volta in cui ho scoperto che un finto rappresentante, elegantemente vestito e dotato di regolamentare valigetta 24 ore, al quale avevo,  con convinzione,  consegnato l’unica banconota da 5 € che mi ritrovavo in tasca, era in realtà il figlio di una famiglia ricchissima della mia zona di residenza, leggermente disabile e che periodicamente viene a stare con i suoi per le feste comandate. In realtà me l’ero ritrovato nel parcheggio interno, mentre sembrava davvero di essere appena uscito sconsolatamente da una visita di rappresentanza, e si lamentava con me di avere una famiglia e dei figli da mantenere, perchè nessuno aveva comprato i suoi prodotti per l’igiene della casa, di cui lui era raprresentante. Quella volta ho pensato ai suoi poveri filgi, senza latte e senza pane. Ho pensato che  quel povero papà sarebbe rientrato a casa almeno con 5 €. Giuro che se avessi avuto di più, gli avrei dato di più. Quella volta ci rimasi però di stucco, quando  il sedicente rappresentante, dopo essersi lamentato perchè gli avevo dato soltanto 5 €, si mise ad urlare contro il mondo e contro i Sardi (urlava letteralmente “Sardi bastardi”) con la mia banconota in mano. Più tardi, come detto, scoprii da certi vicini, che la sua famiglia era straricca e che il giovane rampollo, ritardato mentale, occupava il suo tempo e le sue vacanze, fingendo di essere un rappresentante, sfortunato e padre di famiglia.

Anche questa volta, non di meno, coi soldi che ho in tasca, penso di poterla aiutare. Magari potrei portarla al bar e darle da mangiare. O pagargli il pullman, affinchè, nelo suo stato, non abbia troppo a stancarsi.

-” Ma adesso, come fa a rientrare a Guspini?” – le chiedo anche per guadagnare ancora qualche secondo di ulteriore riflessione.

– ” Devo prendere il treno”- mi risponde incautamente la signora.

– “Ma a Guspini non passa il treno!” – rispondo io. E mi viene in mente mia nonna, che veniva spesso da Guspini al mio paese con la corriera dell’ARST (allora si chiamava SATAS, mi pare di ricordare).

-” Signora, ma io non ho capito ancora bene dove è che lavorava lei a Guspini! Mi ha parlato di suo padre….”- le chiedo infine, ormai dubbioso.

-” Mio padre puliva i giardinetti, vicino al cimitero…” mi risponde.

Poco prima mi aveva detto che suo padre aveva un panificio.

Magari era davvero una donna bisognosa. E magari pure malata. Non lo saprò mai, credo.

Una cosa è certa: era un’attrice; o un’impostora; a Guspini non c’era mai stata di sicuro.

Spero che il Servizio Sanitario Nazionale non abbandoni mai gli ammalati. E che la Caritas continui ad assistere i bisognosi.

Io, quando posso, preferisco aiutare le associazioni che fanno beneficienza; e pago i doverosi tributi allo Stato (caspita se li pago!).

E giuro ancora che non darò mai più soldi a chi mi mi racconta panzane per strada!

 

Due giovani a Londra

londra2Quel venerdì lo seguii per dei viali larghi e alberati. Sui marciapiedi, le foglie cadute durante la notte, formavano uno spesso e soffice tappeto, su cui Giorgio camminava con fare divertito ma deciso.

Era una giornata incolore, di quelle che si contano numerose a Londra soprattutto nei mesi invernali. Una di quelle giornate in cui il chiarore diurno mantiene la stessa tenue intensità, dal mattino al pomeriggio, e la notte sopravviene improvvisa, quando il pallido e soffocato riverbero del sole, dietro una spessa coltre di nubi, ha concluso il suo faticoso ciclo giornaliero.

Soffiava una brezza fresca e leggera. Ma il vento, a tratti, diveniva impetuoso, e con violente folate sembrava spingerci, come per gioco o come se volesse incoraggiarci ad andare avanti.
La ricerca di un lavoro stava diventando estenuante.
– “ Non conosco più la Londra dei tempi andati” mi aveva detto Giorgio, appena la sera prima, uscendo da una delle tante agenzie del centro che avevamo inutilmente visitato.
Lo seguii nella sua marcia, concentrato sul rumore che i  nostri passi producevano calpestando le  foglie. Il rombo di un’auto distolse la mia attenzione.

-” Dove andiamo?” gli chiesi.

-” Proveremo a fare un largo giro per di qua”- rispose voltando leggermente il capo all’indietro. “Male che vada ci ricongiungeremo alla Maida Vale. Lì è pieno di agenzie di  lavoro.”.

Giorgio conosceva molto bene quella zona, o meglio la conosceva assai meglio di me. Ci abitava già dall’anno precedente. Aveva preso l’ampio monovano che adesso occupavamo insieme, con  una ragazza, ora rientrata in Italia, come mi aveva fugacemente informato, non senza che un’ombra oscurasse i suoi occhi tristemente ed io non avevo osato più chiedergli niente, nè lui aveva mai più ripreso l’argomento.
Camminavamo in silenzio. Ogni tanto incrociavamo qualche frettoloso passante o si scorgeva, quasi più che  udirsi , come una fugace apparizione, un’auto o una moto il cui rumore si diradava lentamente, come assorbito e diluito nell’immensità del silenzio circostante. Svoltando svariate volte, dopo un tempo indefinito, quel deserto di foglie secche parve interrompersi bruscamente contro una ringhiera di ferro. Mi appoggiai ad essa, ansimante ed eccitato per la marcia e per una strana emozione che, improvvisamente, mi aveva pervaso.

Dal mio punto di osservazione, alte chiome d’albero nascondevano  l’orizzonte e   potevo vedere soltanto, lievemente ondeggiante nel vuoto, un cartello verde con la scritta Winpey in caratteri cubitali rosso-cupi. Sentivo un prurito piacevole per tutto il corpo. Una sensazione che fu subito di leggerezza. Un desiderio di lasciarmi andare,  di librarmi nell’aria, verso quel cartello, verso il cielo.
-” Vieni, scendiamo per questi gradini”-
La voce di Giorgio mi distolse da quei pensieri. Mano a mano che scendevamo la scalinata, la visuale, sotto di noi, assumeva i suoi reali contorni. Quel cartello, che dall’alto mi era sembrato sospeso nell’aria, era la sommità dell’altissimo traliccio di una gru che capeggiava al centro di un immenso cantiere edile. Alzai di nuovo lo sguardo verso quella scritta e notai che si stagliava contro un cielo carico di piombo, senza uno sbalzo di tonalità. Una cappa plumbea fin dove arrivava il mio sguardo.

-” Siamo di mattina o di sera, Giò?” – Feci serio.

-”Che differenza fa?!” – mi rispose quasi canzonandomi – “ Comunque qui stanno lavorando, andiamo a sentire”. – Mi fece ancora.

Per trovare l’accesso al cantiere, che occupava un largo spiazzo al centro di un crocevia, percorremo per circa metà il perimetro del cantiere. Le spesse tavole che lo delimitavano avevano degli interspazi di quindici centimetri circa, attraverso i quali si intravedevano numerose macchine: scavatrici, pale meccaniche,betoniere,  impastatrici, tutte ferme, come mostri addormentati o morti, nel silenzio più totale.

-” Come fai a dire che c’è gente che lavora qui? Io non vedo nessuno”.

Giorgio diede anch’egli uno sguardo all’interno, chinandosi un poco.

-”Saranno fermi per uno dei tanti “tea-times” che gli Inglesi fanno. Cerchiamo l’entrata e poi si vedrà”.

L’entrata stava proprio alla parte opposta al punto in cui, per la prima volta, su dal viale, avevo scorto il traliccio della gru. Entrammo. Tra macchine e pale, mucchi di sabbia e cataste di sacchi di cemento, mattoni, legnami, ferri ed utensili vari, notammo una piccola casetta di lamiera rossa che stava quasi al centro del campo di lavoro. Ci stavamo avvicinando quando si aprì una porticina che,dipinta dello stesso colore del casotto, quasi non si notava dal resto.

-”Salve ragazzi!” – Ci fece un signore uscendo, nel vederci.

-”In che cosa posso aiutarvi?”-. Il suo tono era cordiale e allegro. Era come se vedesse due persone già conosciute .

-” C’è bisogno di qualche manovale, qui da lei?” – Gli fece Giorgio senza preamboli e ridendo anche lui.

Ci fermammo a quattro passi e così ebbi modo di osservarlo meglio: aveva una carnagione dai riflessi cerulei che contrastavano con il nero forte dei capelli. Vestiva con eleganza un abito marrone su camicia bianca e una cravatta a strisce rosse e nere, oblique, che si intonava bene.

-”Non avrei niente in contrario davvero” – riprese l’uomo nello stesso tono gioviale di prima-” ma la nostra ditta assume solo tramite l’agenzia. Adesso vi dò l’indirizzo e così andate a vedere. Ci sono buone speranze. Seguitemi nell’ufficio dunque”-, ci spronò vedendoci indecisi.
L’ufficio era improvvisato, da campo. Anche al suo interno si notavano numerosi secchi pieni di martelli, scalpelli, picchetti, livelle, cazzuole ed altri attrezzi da muratore. Appena dentro, Mr. Joking (così si era presentato, chiedendoci a sua volta i nostri nomi) era passato subito al di là di una scrivania in legno carica di scartoffie, di alcunio campioni di piastrelle colorate e di qualche attrezzo minuto.

Ci scrutò meglio da capo a piedi.

-” Da dove venite?” – Ci chiese dopo un attento esame, distogliendo lo sguardo.

-”Dall’Italia” – rispose pronto Giorgio precedendomi.

Sembrammo superare il suo esame, perchè ci sorrise soddisfatto.

-” Eccovi l’indirizzo dell’Agenzia” – disse dopo avere scarabocchiato qualche cosa su un pezzo di carta, – “ e buona fortuna!”-, aggiunse mentre porgeva a Giorgio il biglietto!

Non avevamo neanche avuto il tempo di leggerlo che si udì un vocione alle nostre spalle che diceva: “ -Il vecchio Pat non sopporta che si pronunci male il suo nome e quello della sua Agenzia e soprattutto non sopporta che gli si raccontino delle balle. Se lo farete, non avrete nessun lavoro da lui”. Poi,  rivolto a Mr Joking aggiunse:

– “Pat il boia sta per vincere ancora, non è vero?” –

Voltandoci scorgemmo un gigantesco uomo che rideva sguaiatamente.
Giorgio era rimasto perplesso, con il biglietto in mano, a guardare ora il gigante, che si teneva il pancione dal gran ridere, ora Mr. Joking, che pareva invece  alquanto imbarazzato.
Mi feci più vicino a lui quando lo vidi leggere il foglietto. Vi stava scritto, su una sola riga: “Pat Winningoes – Gehenna Geld”, e nient’altro.

-” Strani nomi, gli ultimi due. Sembrano tedeschi”-, esclamò Giorgio con voce smarrita.

– “ Non ha messo neppure il numero di telefono. Glielo chiediamo?”-, feci io.

-” Casomai lo cercheremo sulla guida telefonica. Sempre che esista”-, mormorò Giorgio. E mettendosi il foglietto in tasca , infilò la porticina della casetta. Uscimmo senza salutare con un passo veloce e nervoso. Prima di giungere all’uscita del cantiere, ci sentimmo chiamare.

-” Hey, aspettate un momento, prego!”. Mr. Joking ci raggiunse affannando un pochino. -”Non fate caso a Big Joe, è un burlone” – aggiunse sorridendo come quando ci aveva visti la prima volta, con un tono di voce rassicurante. “Venite, prego”-, fece poi guidandoci oltre l’uscita. “Attraversate la strada in quella direzione e imboccate decisi il viale che avete di fronte; poi contate la terza a sinistra e non potete sbagliare: di fronte avrete un grosso portone in legno scuro. Lì c’è l’Agenzia. Andate e……ancora buona fortuna”!

Aveva parlato tutto d’un fiato e in modo così convincente che ci eravamo già dimenticati di Big Joe e dello scherzo di prima. Prendemmo    il viale che ci aveva indicato Mr. Joking, ed alla terza traversa a sinistra ci trovammo in un vicolo cieco, largo e corto. Sul fondo si stagliava un grosso portone in legno scuro.

Più che l’ingresso di una delle tante agenzie di lavoro londinesi mi parve di avere di fronte una residenza ricca e lussuosa. Dei gradini in marmo davano su di un atrio straordinariamente luccicante, ai cui lati si ergevano, anch’esse in marmo, due possenti colonne.
Giorgio fu il primo a salire i gradini e ad un certo punto   parve inciampare . Si rimise subito in equilibrio, mormorando un seccatissimo “Accidenti!” e controllandosi il fondo delle scarpe, come se lì cercasse la causa dell’incidente.
Il vento,  fattosi più insistente, formava  in quel vicolo un sibilante mulinello,  sbattacchiando violentemente sul portone un cartello rettangolare che vi era stato malamente affisso con del nastro adesivo solo per un lato. Con la mano lo fermai sul portone. Vi  leggemmo, in una chiara grafia dai caratteri corsivi

“London Trickery and Illusion Centre”.

– Ma dove cavolo ci hanno mandato quei due?”-, sbottò Giorgio guardandomi in faccia.

– “Boh”-, feci io di rimando, mollando la presa del cartello, che riprese subito a sventolare.

– “ Stai a  vedere che c’hanno tirato un bidone, quei due sbruffoni!”-, mi dissi stizzito. Eppoi rivolgendomi al mio compagno – “Non abbiamo,  per caso, sbagliato nel contare le traverse?”. E feci per tornare indietro a controllare.

– Corri a guardare, oh!” -, mi gridò dietro Giorgio in quel mentre, con una nota di emozione nella voce. Tornai velocemente sui miei passi e mi  avvicinai. Con la mano destra fermava il cartello sul portone e con sorpresa stavolta vi lessi : -”Pat Winningoes- Gehenna Geld Agency- 1st Floor”.

-” Che diavolo di storia è mai questa?-, feci a Giorgio che mi guardava beffardo, con la mano sempre ferma sul cartello.

-” La storia è tutta qua”-, rispose. E con gesti enfatici, come un prestigiatore che sveli al pubblico un trucco sorprendente, girò il cartello dalla parte in cui lo avevo fermato io la prima volta, dove si leggeva appunto quell’altra scritta. Lo voltai da una parte e dall’altra, per un paio di volte, come per farmi convinto, mentre Giorgio già spingeva l’altra metà del portone.

L’ingresso era oscuro, ma dopo esserci chiusi il portone alle spalle, notammo, sulla sinistra, una porta aperta. Vi si intravedeva, appena, una fioca luce.Imboccammo delle scale,  anch’esse scarsamente illuminate, dopo avere , quasi a tentoni, superato un angusto anditino. Non vi era segno alcuno di vita. Al primo pianerottolo trovammo, ancora sulla sinistra, una porta aperta e ci affacciammo a vedere.

-” Avanti, avanti”- fece una voce da dietro una porta a vetri dischiusa. E prima ancora che potessimo fare o dire qualche cosa, un viso scarno comparve sulla soglia ed in tono più fermo replicò:

-“Avanti dunque”-.

…continua…