Capitolo Quarto
Se qualcuno avesse chiesto al re di Francia oppure all’imperatore, dove fossero Pavullo nel Frignano e Castelnuovo di Garfagnana, costoro, nonostante la loro grandezza, non avrebbero saputo cosa rispondere. Quasi sicuramente sapevano dove fossero Modena e Reggio, dato che le città erano feudi imperiali e, come tali, concesse agli Estensi con quel vincolo. Al loro posto avrebbe risposto con maggiore cognizione di causa il papa Leone X della famiglia fiorentina dei Medici.
Ma il duca Ferrante d’Este non ebbe mai timore, né riverenza o soggezione nei confronti dei papi, dei re e degli imperatori. Conscio della fragilità e della precarietà dei suoi possedimenti, al confronto dei colossi stranieri e dei molossi italiani, papalini, veneti o fiorentini che essi fossero, riuscì sempre a difenderli adeguatamente con delle opportune e strategiche alleanze, soprattutto dalle mire espansionistiche dei papi che avrebbero ingrandito volentieri il loro stato in danno del suo.
La forza della diplomazia estense si incentrava su due cardini: l’ambiguità nelle alleanze, che lo portava a continuare ad intrattenere rapporti anche con i nemici; e l’acquisizione e il mantenimento di una reputazione che doveva servire a scoraggiare gli stati forti dall’aggressione nei confronti degli stati deboli.
Nelle sue vene, oltre a quello dei suoi nobili ascendenti catalani, scorreva anche sangue popolano; sicuramente quello di Gueraldina Carlino, l’amante napoletana di Alfonso V d’Aragona, sua bisnonna.
Con quel sangue popolano era transitata, nelle sue mani e nella sua testa, una grande abilità artigianale che il principe estense manifestava nella manifattura di oggetti in legno e ceramica e, soprattutto, mischiandosi all’ingente patrimonio genetico dei paterni avi guerrieri, nella modifica manuale dei cannoni e delle altre armi da fuoco allora in auge.
Certamente, come tutti i principi, non gli mancavano l’audacia, il coraggio e l’ingegno militare, ma fu questa sua grande abilità manuale nel potenziamento e nel perfezionamento delle armi da fuoco a fare la sua fortuna politica e a consentirgli di navigare illeso in quel mare periglioso che fluttuava impetuoso in quei primi decenni del secolo sedicesimo.
A ben vedere questa sua manualità artigianale si addiceva al suo piccolo principato. Al contrario degli altri principi altolocati, che possedevano regni estesi e incommensurabili, talvolta perfino separati dai mari e dagli oceani, e a differenza perfino dei papi, i suoi possedimenti egli poteva toccarli tutti con mano e li misurava con gli occhi.
Forse per questo motivo godeva della benevolenza dei suoi sudditi. Alcuni, come quelli della Garfagnana, lo avevano prescelto fra i tanti pretendenti, com’era d’altronde successo anche per il Frignano ai suoi avi che, prima di lui, avevano posseduto quei territori, da sempre provincia agreste e montuosa della città di Modena.
E così, il duca artigliere, andava costruendo e difendendo il suo principato, pezzo per pezzo, come se fosse un’opera manuale.
Gli altri principi potevano osservare i loro feudi sulla carta, lui era fisicamente legato alle sue terre, che conosceva metro per metro e con le quali aveva un rapporto viscerale, stretto e sanguigno.
E la gente che vi abitava era il suo popolo, da proteggere, da difendere e da amare.
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